domenica 20 novembre 2011

Il male oscuro della Bundesliga e il tabù che il calcio ancora non supera


Il male oscuro della Bundesliga è un grande buco nero che, prima di Babak Rafati, fischietto finito sulle prime pagine di tutti i giornali per il tentato suicidio, ha inghiottito una lunga serie di campioni o presunti tali, schiacciati dai fantasmi che cancellano la voglia di vivere. C'è una data che i tifosi tedeschi non dimenticheranno mai: 10 novembre 2009, il giorno in cui Robert Enke, portiere dell'Hannover e della nazionale, si suicidò lanciandosi a 32 anni contro un treno in corsa. Era in cura per depressione dal 2003 ma nessuno lo sapeva. “Si vergognava della sua malattia” raccontò la moglie: “Era ossessionato dalla paura di fallire”. Una vita spezzata che sconvolse la Germania. Dopo di lui Markus Miller, portiere che l'Hannover aveva chiamato per sostituire Enke, ricoverato in clinica; il campione triste Breno, arrestato dalla polizia di Monaco perché sospettato di aver dato fuoco alla sua villa in un momento di depressione; Ralf Rangnick, allenatore dello Schalke04 semifinalista di Champions, dimessosi all'improvviso per un forte esaurimento; l'attaccante ceco Martin Fenin, finito in ospedale in condizioni gravissime per un'intossicazione da farmaci antidepressivi. Un'escalation che sta spingendo la lega tedesca a costringere i club a dotarsi di psicologi da affiancare a campioni sempre più fragili e con un predecessore illustre, quel Sebastian Deisler ritiratosi nel 2007 nel pieno di una carriera tormentata dagli infortuni in cui una stagione era stata saltata per una depressione cronica.

Raccontano le cronache che Babak Rafati era agli sgoccioli della sua carriera da arbitro internazionale. Aveva già ricevuto la comunicazione che non sarebbe stato confermato. Da tre anni figurava in cima alla classifica dei direttori di gara meno amati dai giocatori. Un profilo a rischio, almeno a sentire gli specialisti secondo i quali gli sportivi sono esposti mediamente più del resto della popolazione al rischio depressione. I casi non mancano anche in Italia: Buffon, Vieri, Adriano, Pessotto, Di Bartolomei. Schiavi di un sistema in cui un centesimo di secondo o un pallone valutato male possono costare troppo e che li spinge “a mettere tutta la loro vita nel raggiungimento di un risultato cosicché, in caso di fallimento, ad essere messa in discussione è tutta la vita” ha avuto modo di spiegare Alberto Cei, psicologo dello sport. Calciatori, ciclisti e campioni dell'atletica i più colpiti perché – dicono studi internazionali – un legame esiste anche con l'uso del doping.

Dopo Enke il calcio tedesco si è chiesto come evitare nuove tragedie. Avvenne anche da noi quando a togliersi la vita fu Di Bartolomei o sotto la spinta dello choc per il tragico volo di Pessotto. E' cambiato qualcosa? A leggere due vicende di questi anni sembra di no. Il nome di Martin Bengtsson è sconosciuto ai più, ma la sua storia è un pugno nello stomaco. Era un giovane talento dell'Inter. Tentò il suicidio tagliandosi le vene dei polsi. Fu salvato ma da allora ha scelto di allontanarsi per sempre dal sistema calcio “che ti tratta come una macchina: se non funzioni avanti un altro”. Ha scritto un libro per raccontare la sua parabola: l'assenza di privacy, la solitudine, le pressioni per rendere al massimo, lo shopping compulsivo come droga. Non ha più messo piede in uno stadio. E' sconosciuto anche il nome di Andreas Biermann, difensore del St. Pauli. Dieci giorni dopo il suicidio di Enke uscì allo scoperto raccontando di essere da tempo in cura presso uno psicologo. Prime pagine dei giornali per qualche giorno, poi l'oblio. Biedermann è tornato al calcio ma non ha più trovato una squadra disposta a dargli una maglia e ora vivacchia in settima divisione tra i dilettanti. “Se un calciatore soffre di depressione è meglio che si chiuda in un ripostiglio se vuole continuare la sua carriera” ha avuto modo di dire recentemente. Uno schiaffo ai benpensanti, quelli che oggi parlano di stress da togliere al mondo del calcio ma non accettano che il campione si mostri nella sua fragilità. Quelli che “figuriamoci cosa dovrebbe dire chi lavora in fabbrica” quando a Ibra, Cassano e agli altri sfugge che, anche pieni di soldi, giovani e famosi, si può sognare una vita migliore.

Giovanni Capuano

2 commenti:

  1. ommachebellarticolo! ma allora il mestiere di giornalista non è ancora morto,è solo in stato comatoso. se posso permettermi di aggiungre qualcosa, direi che non è possibile sradicare dei minorenni dal loro ambiente, nutrirli solo di tattica calcistica, fargli sperare di entrare nel mondo scintillante dei CR7 riservato invece a pochissimi eletti ed evitare che qualcuno si perda per strada, anche in maniera drammatica. l'essere umano, a qualunque latitudine, odia l'usa e getta e le società calcistiche dovrebbero aver cura di limitare al massimo l'eventualità di creare degli spostati.

    RispondiElimina