mercoledì 30 novembre 2011

Inzaghi, Del Piero e Totti: il declino senza riconoscenza degli eroi di Berlino


Gli eroi di Berlino sono stanchi. Si alzano sempre più tardi dalla panchina, qualche volta rimangono addirittura seduti. Anche se il loro stipendio continua a essere a sei zeri e per i tifosi rimangono gli idoli di un tempo. Messi da parte dai loro tecnici, fuori dai progetti di rilancio di squadre e società.Nel migliore dei casi guardati con riconoscenza ma più spesso considerati un peso di cui liberarsi, una voce in bilancio non più sostenibile. Del Piero, Iaquinta, Toni, Grosso, Totti, Inzaghi. Gli eroi di Berlino sono arrivati a fine corsa. 

Il distacco più doloroso è certamente quello di Del Piero dalla Juventus. Alex è ormai ai margini della Vecchia Signora e le parole di Agnelli dello scorso 18 ottobre ("Questa è l'ultima stagione in bianconero") non hanno fatto altro che accelerare il processo di dismissione del mito. Da quel giorno Del Piero ha messo il piede in campo per la miseria di 19 minuti; due volte, a Napoli e contro il Genoa, ha subito l'umiliazione dell'ingresso nel tempo di recupero giusto per perdere tempo. Come una riserva qualsiasi, anche nel giorno della festa per le 700 partite da professionista. Se a Conte serviva l'imprimatur alle sue scelte, l'annuncio di Agnelli è stato un regalo gradito. Alex scalpita, la gente lo osanna ma fin che la Juve vince per lui non ci sarà posto. E pazienza se il finale si sarebbe potuto vivere con maggior classe. Del resto nei vicoli di Vinovo si sono perse le tracce anche di Iaquinta, Toni e Grosso. Il primo è stato penalizzato dagli infortuni ma, in ogni caso, non rientra più nei piani di Conte. Ultimo segnale di vita: 1 dicembre 2010 nel gelo di Poznan; gol inutile e Juventus eliminata. Il secondo è sul mercato ma nessuno lo vuole. Zero minuti in questa stagione, ultima rete il 10 aprile scorso contro il Genoa, decisiva. Poi più nulla. Grosso è stato riesumato due volte per cause di forza maggiore: ha giocato (e bene) poi è di nuovo sparito. Insieme costano 9 milioni di euro lordi a stagione. Marotta si augura traslochino altrove. Ringraziamenti? A contratto (di cessione) firmato. 

Chi a gennaio quasi certamente farà le valigie è Pippo Inzaghi. Nella notte di Berlino era in panchina e lì è rimasto quest'anno: 28 minuti in campo, un tiro in porta e tanta rabbia per l'esclusione dalla lista Champions che gli costerà il record di gol nelle competizioni europee. Poteva gestirla meglio Allegri? Poteva. Forse. In ogni caso addio quasi certo. Su Gattuso le perplessità sono legate al recupero dopo il malanno al nervo ottico: Nocerino, però, non lo sta facendo rimpiangere. 

A Roma è Totti in persona a vivere la stagione del crepuscolo. "Sei al centro del progetto" gli ha detto Sabatini in estate. Poi le panchine di agosto, le presenze di settembre, i malanni fisici e ora la difficile collocazione in una squadra che ha scoperto Lamela e Pjanic. Impossibile pensare a un suo futuro lontano dalla Roma, però il sospetto è che i quasi 5 milioni di euro (netti) del suo ingaggio con prolungamento da dirigente già garantito siano oggi un peso per il nuovo corso americano. E il discorso vale a maggior ragione per Perrotta che, se non fosse per la firma strappata alla Sensi in primavera, oggi sarebbe altrove. Luis Enrique non lo vede: a novembre ha giocato solo 20 minuti. 

Il tramonto di un altro eroe è, invece, in Argentina. Camoranesi sta svernando nel Lanus senza gloria. Ultima notizia pervenuta, il calcio in faccia a un avversario che gli è costato 5 giornate di qualifica. E c'è chi, come Barone, si è riciclato in B a Livorno dopo un anno di inattività trascorso ad allenarsi con il Crociati Noceto e il Varese. L'uomo della coppa alzata al cielo (Cannavaro) e quello che con il suo colpo di testa ci regalò supplementari e rigori (Materazzi) si sono ormai ritirati così come Peruzzi

In piena attività restano gli juventini Buffon, Barzagli e Pirlo, il romanista De Rossi, i milanisti Zambrotta, Nesta e Amelia, più Zaccardo, Gilardino e Oddo. Non tutti giocano con continuità. Qualcuno, come Pirlo, si è inventato una nuova sfida dopo essere diventato un peso per il Milan. Un destino comune a quasi tutti gli eroi di Berlino. Quella sera ci fecero impazzire di gioia, oggi sono stanchi, quasi sempre seduti su una panchina ai bordi del campo.

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L'ultima sfida di Josefa: "Ma non so se mi ritiro"


Josefa Idem è un’anomalia. E’ la donna con più partecipazioni olimpiche, ha una collezione di medaglie ineguagliabile e punta a Londra per incrementarla. E’ una signora di quasi 48 anni ma, eccezione, non ha paura a parlare della sua età perché ha fatto della sua forza di volontà e della sua parabola agonistica un motivo di forza e di orgoglio. E’ nata in Germania ma ha cuore e passaporto italiano dal 1989. Ci ha scelti per amore oltre vent’anni fa e da allora non si è mai pentita di essere diventata una di noi. Impegnata nel sociale, un passato in politica, mai banale. Su di lei è stato scritto tutto tranne la data del suo ritiro perché a dir la verità, malgrado il tempo che passa, nemmeno lei la conosce.

In quale definizione si riconosce maggiormente?

"Determinata, mi ci riconosco. Con la qualificazione alle prossime Olimpiadi ho anche messo a posto i conti con la fortuna sportiva che mi era mancata negli ultimi due anni"

Tanti sostengono che lei è la dimostrazione che nello sport l’Italia non è un paese per giovani…

"Lo dicono?"

E’ vero che continua a mancare la spinta dei giovani in tante discipline…

"Io mi preparo e mi butto nella mischia. Se qualcuno mi batte sono pronta a mettermi da parte. Lo sport non è come la politica dove uno si mette la colla sui glutei per restare attaccato alla poltrona anche quando ci sono i requisiti per abbandonare il campo. Mi sono sempre guadagnata quello che ho avuto"

Conferma che i giovani mancano. Perché?

"Politiche sbagliate e pochi investimenti. Forse è colpa anche dei giovani che hanno tutto e si chiedono chi me la fa fare a fare tanta fatica"

Si può cambiare?

"L’Italia è fanalino di coda in Europa per ore di sport a scuola, i corsi esterni hanno dei costi e le strutture lasciano a desiderare, ma non è solo una questione di carenza di risorse. Quando i giovani hanno tutto è difficile che si impegnino in qualcosa in cui il risultato finale non è programmabile"

Lei ha detto che va a Londra per vincere. Cosa significa a quasi cinquanta anni?

"E’ inutile pensare in piccolo. Può accadere tutto e se non succederà non mi butterò da un grattacielo. Però ci credo perché nonostante gli anni che passano sono sempre migliorata"

E’ pronta ad accettare chi parlerà di delusione se non accadesse?

"Ognuno è libero di provare delusione. Sarei dispiaciuta se non vincessi ma non me la sentirei di parlare di delusione per una medaglia mancata. Ho una vita bella già così com’è"

Saranno le ultime Olimpiadi?

"Prima mi hanno chiesto se sono disposta a giurare come fanno i ministri…"

Che fa? Giura?

"Non giuro. Penso di smettere ma non giuro"

Ha detto che sarebbe orgogliosa di essere scelta come portabandiera dopo il rifiuto della Pellegrini. Petrucci l’ha chiamata?

"No. Sono solo ipotesi, il toto nome è un gioco giornalistico e comunque quello di Federica era un solo chiarimento che va accettato. Non la si può biasimare perché lei è molto esposta alle critiche dell’opinione pubblica e si tratta di decidere di essere criticata perché non si porta la bandiera o perché si toppa la gara"

Quindi la sua è stata una scelta coerente?

"Una scelta coerente con una dichiarazione fatta dicendo pane al pane e vino al vino"

Se qualcuno obiettasse che in fondo lei è una tedesca diventata italiana e quindi non la persona adatta a portare la nostra bandiera si stupirebbe?

"Ho sempre detto che sono italiana per scelta e un’osservazione del genere mi ferirebbe perché sarebbe come fare una dichiarazione d’amore ed essere respinti. Mi chiedo perché si debba parlare di un argomento simile prima che qualcuno lo faccia. E’ per mettere il tarlo?"

Il dibattito sulla multietnicità nello sport, a partire dalla nazionale di calcio, in Italia si è appena aperto…

"Perché dobbiamo ostinarci a essere provinciali? Sono voci singole cui conviene non dare forza. Il nostro è un paese che lavora per essere multiculturale e garantire accoglienza. Dovremmo esaltare questi aspetti positivi piuttosto che dare ascolto a chi vuole restare indietro"

Come si arriva alla sua età ai massimi livelli?

"Bella domanda"

Sacrifici?

"I sacrifici sono un’altra cosa. Sono quelli di chi sale su una nave per raggiungere un paese in cui crede di poter trovare fortuna"

Tanti sportivi raccontano della loro vita come piena di sacrifici…

"Io non voglio farlo perché quanto poi devo parlare di un vero sacrificio non trovo il termine. Mi piace parlare di grande impegno che ho portato avanti con piacere anche quando è stato faticoso e ho avuto dei dubbi. Quando mi chiedono se sono stupita di essere arrivata fin qui dico di no perché adesso conosco la strada che ho percorsa. Trent’anni fa sarei stata molto stupita"

Oggi gli atleti ritengono quasi obbligatorio costruirsi un’immagine da personaggi pubblici anche al di fuori del campo… Si va sui giornali quasi più per il gossip che per i risultati.

"E’ anche colpa della comunicazione e dell’informazione che cerca questo e gli atleti offrono quello che serve per avere visibilità. Non so chi abbia iniziato prima, però adesso è così"

Lei?

"Non è il mio caso. Non ho gossip da pubblicare e mi piace la sostanza"

E' stata l’unica a dire che il libro di Ibrahimovic presentato così com’è successo sui giornali italiani non rappresentava un messaggio positivo per i più giovani. L’hanno seguita in pochi. Perché?

"Io non ho voluto giudicare Ibrahimovic. Ho cercato di distinguere ma se lui è nato nel ghetto c’è da chiedersi perché ostinarsi a rimanerci. La sua storia avrebbe potuto essere utilizzata in modo migliore, confezionando il messaggio che deve passare. Mi sarebbe piaciuto se, legato all’uscita del libro, avesse creato una fondazione per aiutare i ragazzi che crescono in condizioni difficili. Il messaggio che è passato è quello del ‘bad boy’ al quale tutto è concesso purché faccia gol ed è un messaggio sbagliato per i giovani che devono ancora superare i momenti difficili in cui tanti si schiantano contro un albero e ci lasciano le penne perché hanno bevuto o sono andati troppo forte"

Ma ha ancora senso o è un’ipocrisia parlare di etica e messaggi positivi nello sport?

"Ha senso perché malgrado le situazione negative come il doping e la violenza ci sono belle storie che non conosciamo nemmeno. Pensiamo a chi lavora perché i giovani abbiano delle opportunità o per insegnare che il doping è una scorciatoia pericolosa. C’è un esercito di persone che non raccontiamo"

La federciclismo ha deciso di escludere dalla maglia azzurra i condannati per doping. Condivide?

"Io sono contro l’ergastolo sportivo. Loro hanno ammazzato degli ideali ma non hanno ucciso nessuno. Va concessa una nuova chance come chi esce dal carcere ha diritto a rifarsi una vita. E’ giusta la punizione e prendere provvedimenti più forti in caso di ricadute"

Lei sostiene che il doping non può essere liberalizzato. Perché?

"Perché fa male alla salute. Il rischio è che un giovane pensi solo al successo immediato senza rendersi conto che a quarant’anni può morire di infarto"

I soldi spesi nel contrasto al doping sono un passo avanti o solo un modo per ripulirsi la coscienza?

"Spesso ho accettato il confronto con atlete che sapevo più forti di me e sono andato sulla linea di partenza. Anche far poco è fare qualcosa, una barriera che protegge dalla malattia che è il doping"

Lei ha un passato anche in politica. Da tedesca di nascita e italiana d’adozione perché la Germania in questo momento dovrebbe fidarsi di noi?

"E’ difficile che lo facciano dopo un periodo in cui ci sono persone del nostro paese che si sono fatte beffe dell’Italia. Sceglieranno loro, ma possono avere fiducia perché l’Italia ha sempre saputo risollevarsi, con tante competenze e tanti tesori. E’ il momento di declinare la parola orgoglio al futuro"

Se le offrissero il ministero dello sport ci andrebbe da tecnico o da politico?

"Si fa politica anche crescendo i figli nella vita di tutti i giorni. Vorrebbe dire provare a capire tutte le esigenze…"

Non è mai successo che quel posto sia stato affidato un ex atleta…

"La vedo dura, ma non so se vorrei andarci"

Tra quattro anni dove la troviamo?

"Magari a Rio de Janeiro a seguire le gare"

Magari no. Grazie e in bocca al lupo.

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martedì 29 novembre 2011

Da Sheva e Zidane al Pocho: quando in casa del campione comanda la donna


Rassegnati all’obbedienza. Incapaci di opporsi ai desideri di mogli e fidanzate anche a costo di finire sul mercato, perdere faccia e tifosi, fare la figura dei cagnolini pronti a mettersi a cuccia in un mondo che è rimasto fondamentalmente maschilista. La minaccia della bella Yanina di portarsi via il Pocho da Napoli ha mandato di traverso il cappuccino dei tifosi partenopei. Quello che potrebbe essere archiviato semplicemente come lo sfogo di una giovane donna spaventata dopo una brutta avventura, suona invece come una minaccia concreta.

Come dimenticare, infatti, gli illustri precedenti? Campioni che per accontentare le proprie signore non hanno esitato a coprirsi di ridicolo. Il primo fu Zinedine Zidane. Lui amava la nebbia di Torino, la signora Veronique aveva nostaglia del sole e del mare. Lui sarebbe anche rimasto alla Juve, lei no e alla fine la spuntò con coda velenosa firmata dall’Avvocato: “Lui soffre l’autorità della moglie – disse ricordando un suo colloquio col francese inquieto -. Gli ho chiesto: ma in casa tua chi comanda? E lui mi ha risposto: da quando abbiamo due figli comanda lei. Io non posso farci proprio niente”. Partito Zizou, avanti un altro. Che l’addio di Shevchenko al Milan dopo sette anni di gol (173) e vittorie sia stato deciso dalla bella Kristen l’ha ammesso lo stesso ucraino dopo aver pianto lacrime amare in mezzo ai tifosi della curva nel giorno dell’addio a San Siro. “Al consiglio di famiglia è stato deciso: andiamo a Londra” cercò di sdrammatizzare Sheva. Tutto inutile. Il suo passaggio al Chelsea è stato un clamoroso autogol: due anni, 47 presente e la miseria di 9 gol. ‘Il peggior affare di calciomercato in Premier degli ultimi dieci anni’ lo ha descritto il Sun nel luglio del 2008 mentre l’attaccante mendica un ritorno a Milano. Nulla peggio dell’etichetta appiccicatagli addosso dal suo ex presidente e dal suo allenatore a Stamford Bridge: “Un vero uomo non si sarebbe comportato così. In casa mia sono io che comando, Shevchenko invece quando la moglie lo chiama e lo manda sotto al letto corre come un cagnolino” disse Berlusconi alla festa di Natale del Milan. E Mourinho qualche mese più tardi: “Andrà via? Chiedetelo a Kristen. Quando lei alza la voce lui corre sotto il letto con la coda tra le gambe”.

Dopo di loro toccò a Beckham e al suo tira e molla Madrid-Los Angeles-Milano-Los Angeles. Il Real voleva scaricare lo Spice Boy ma lei rifiutava ogni ipotesi di trasferimento fino al contatto con il mondo di Hollywood. Lui sognava un ritorno in grande stile nel calcio europeo e lei, intransigente, lo costringeva a fare il pendolare tra l’Italia e gli Stati Uniti. Un destino condiviso da tanti altri più o meno celebri. Come Eto’o costretto a trasferirsi in albergo alla modica cifra di 2500 euro al giorno per i timori della signora dopo un furto in casa. O come Balzaretti, che spinge per raggiungere a Parigi la compagna prima ballerina dell’opera. Chissà quanto ha inciso la romanità di Ilary nella scelta di Totti di legarsi per sempre alla Capitale?

Che il tema sia scottante lo dimostra non solo i giudizi taglienti che hanno accompagnato le carriere dei campioni che hanno ceduto alle loro compagne, ma la vera e propria campagna anti-Wags firmata da Roy Keane, ex combattente dello United e poi tecnico del Sunderland. Fu lui a postulare il teorema secondo cui se le donne decidono per i calciatori “è un gran brutto segno”. Cosa era successo? Un giocatore che gli interessava aveva fatto sapere che non avrebbe mai accettato di trasferirsi da lui perché la moglie preferiva lo shopping di Londra. E dire che trent’anni fa le cose andavano in maniera differente. Era il 1979 e sul contratto che lo legava al Saint Etienne Michel Platini fece scrivere che a lavare la maglia dopo partite ed allenamenti ci avrebbe pensato il club. Poi telefonò trionfante alla moglie: “Visto, da oggi non te ne dovrai più occupare”. Non si hanno notizie di prese di posizioni della dolce Christelle nei successivi trasferimenti del marito.

La nostra moviola: il ritorno di Rocchi promosso dai vertici Aia


Dopo il disastro della scorsa giornata si può dire che sia andata bene. Del resto era difficile fare peggio e, quindi, bisogna accontentarsi di un week end in cui una sola partita (Cagliari-Bologna) viene condizionata dagli errori di Valeri. Qua e là ci sono sparsi un'altra serie di fischi dubbi o sbagliati che, però, non incidono sul risultato. E' il caso del mani di Silvestre nella sfida del Barbera contro la Fiorentina e dei pasticci a Cesena in occasione del rigore di Mutu. La notizia della giornata è il ritorno a un big match di Rocchi. Era reduce da Inter-Napoli che gli è costato una sospensione di tre giornate e un giro in serie B. I giornali lo hanno generalmente promosso anche se pesa il mani-non mani di Barzagli. Per noi è ok, ma il voto alto che gli hanno dato gli osservatori dell'Aia lo proietta verso le sfide caldissime di questo inverno. E considerati i precedenti forse non sarebbe il caso.

lunedì 28 novembre 2011

Le fatiche d'Ercole di Messi e la caduta delle grandi dopo la Champions


L'amara constatazione di Walter Mazzarri sulle chance scudetto sacrificate in nome della Champions League arriva nel fine settimana in cui, in tutta Europa, sono state numerose le grandi cadute dopo turni europei impegnativi. Ha fatto scalpore il k.o. del Barcellona contro il piccolo Getafe. Non è stato l'unico. Ha perso anche il Bayern contro il Mainz (penultimo in classifica) e l'elenco di chi è stato bloccato sul pareggio, oltre al Napoli, comprende i due Manchester, l'Arsenal e il Bayer Leverkusen. 

Un week end da incubo che non rappresenta, però, un'eccezione in questa stagione in cui la prospettiva degli Europei a giugno ha ulteriormente compresso i calendari. Se si analizza l'andamento dei maggiori tornei si scopre che l'effetto-Champions sta condizionando la classifica. In Italia (Juventus), Germania (Borussia Moenchengladbah) e Francia (Montpellier) ad un terzo del cammino comandano squadre che non si devono misurare con la coppa principale. Un caso? Difficile. Il primato della Juventus, ad esempio, è costruito sulla possibilità per Conte di preparare con cura gli impegni della domenica: pochi infortuni (solo 12 giornate perse per malanni fisici dai giocatori della rosa contro le 78 del Milan), zero turn over, un 'anziano' come Pirlo liberato dal peso del doppio impegno. La squadra di Allegri ha lasciato sul campo ben 7 punti solo nelle quattro giornate che hanno preceduto e seguito la doppia sfida contro il Barcellona: una sola vittoria, contro il Chievo, pareggi a Cesena e Firenze, sconfitta secca a Napoli. Il Napoli viaggia nelle giornate condizionate dagli impegni europei al ritmo dell'Inter: 13 punti fatti su 27. Troppo poco per sognare lo scudetto.

In Spagna è impossibile uscire dal duopolio Real-Barca, ma quasi tutto il vantaggio che Mourinho ha oggi su Guardiola è stato costruito nelle notti post-Champions in cui il Barcellona ha perso a Getafe e pareggiato contro Siviglia, Athletic Bilbao e Real Sociedad: sei punti in meno del Real, esattamente il distacco in classifica. Un campanello d'allarme suonato fortissimo per una squadra a tratti ancora irresistibile, ma sempre più spesso stanca e svuotata. Incide la Champions, certo, e pesa il calendario da globetrotter che sta spezzando anche le resistenze di Messi e compagni. Alla Liga, alla Champions e al prossimo mondiale per Club vanno aggiunti gli impegni con le nazionali. Ogni volte salgono sull'aereo in diciassette per girare il mondo: 15-20mila chilometri (25.699 il record di Messi durante la settimana di sosta a metà novembre) e poi di nuovo in campo per un duello in cui ogni punto perso rischia di essere decisivo. Così alla fine si stancano anche i migliori.

In Inghilterra il Manchester City capolista ha un ruolino impressionante: 13 partite giocate, 11 vinte e due pareggiate. Quando? Ovviamente in due turni post-Champions e Mancini può tirare un sospiro di sollievo visto che a Liverpool ha rischiato di perdere la prima di Premier. Allo United che segue a distanza è andata peggio: i 9 punti lasciati sin qui sono sempre coincisi con sfide prima e dopo mercoledì europei. Un trend che ha colpito anche l'insospettabile Bayern Monaco in Bundesliga: a nemmeno metà stagione ha già perso quattro volte e ben tre, compresa l'ultima a sorpresa contro il Mainz, in concomitanza con la Champions. Numeri che dimostrano come il virus europeo non risparmi nessuno.

Giovanni Capuano

I rolex di Napoli


Cosa sta succedendo a Napoli e intorno al Napoli? Gli episodi di cronaca nera che negli ultimi due mesi hanno coinvolto come vittime Hamsik, Cavani e Lavezzi, e le rispettive famiglie, con cadenza quasi settimanale sono solo un caso? Domande che sotto il Vesuvio circolano sempre più insistenti dopo la denuncia rabbiosa di Yanina Screpante, fidanzata del Pocho, bloccata da due balordi mentre si trovava in auto e costretta, sotto la minaccia delle armi, a consegnare un Rolex di valore. Lo sfogo via Twitter della giovane (“Napoli è una città di merda… Non mi importa, se mi succede qualcosa il mio fidanzato se ne va da qua”) ha aperto la discussione. 

Al centro quell’insulto che i napoletani non accettano e che Yanina ha rettificato scusandosi. Ma è la seconda parte della sua denuncia a riportare alla mente un passato nemmeno troppo lontano in cui i rapporti tra gli idoli della curva e i boss della camorra era così stretto da consentire a Maradona, ad esempio, di vivere la sua vita di eccessi e sregolatezze coperto dal muro dell’omertà. O di permettergli di chiedere a un capo clan di intervenire per riavere indietro quanto sottrattogli nel corso di una rapina nella sua villa: soldi, orologi e un pallone d’oro che, come raccontato recentemente da un pentito, nemmeno l’intervento del boss riuscì a salvare dalla trasformazione in lingotti. Quella rapina del 1989 al Pibe de Oro è al centro del racconto di un pentito di camorra, Pietro Pugliese. Fu lui a spiegare ai magistrati che si trattava di un ‘avvertimento’ al campione argentino perché favorisse il giro delle scommesse clandestine. Una ricostruzione senza riscontri giudiziari ma inquietante per quanto riguarda  i rapporti tra quel grande Napoli e la malavita organizzata: le foto compromettenti di Diego con i fratelli Giuliano, il rapporto di amicizia con il boss Salvatore Lo Russo, l’abuso di cocaina del campione i sospetti dell’intervento della camorra nel clamoroso crollo che costò ai partenopei lo scudetto 1987-88 poi vinto dal Milan di Sacchi. 

Oggi i riflettori tornano ad accendersi sul rapporto tra Napoli e i suoi campioni. La rapina ai danni della fidanzata di Lavezzi è solo l’ultimo di una serie di episodi ravvicinati. Prima la villa di Cavani svaligiata l’8 ottobre scorso mentre l’uruguaiano era impegnato con la sua nazionale. Poi la disavventura della moglie di Hamisk, incinta, minacciata con una pistola per farsi consegnare la Bmw nella zona di Varcaturo. Era il 22 novembre. Nemmeno una settimana ed è toccato a Yanina Screpante. Solo coincidenze? Nel recente passato nel mirino era finito l’attaccante Zalayeta che nel 2009 era stato narcotizzato e rapinato all’interno della sua abitazione. Rolex e chiavi di casa erano stati, invece, il bottino di un furto allo stesso Hamsik nel maggio 2009. 

Napoli non sa più proteggere i suoi campioni? Il presidente De Laurentiis ha provato a spegnere il fuoco della polemica: “In momenti come questi chi gira con auto e orologi di lusso dimostra di non essere diventato abbastanza napoletano”. Insomma è colpa della crisi se le fidanzate dei calciatori rischiano e Napoli è una città meno pericolosa di Roma, la vera capitale del crimine. Tesi che contrasta con le riflessioni dell’ex pm anticamorra Raffaele Cantone che a settembre, quando Lavezzi e Balotelli furono chiamati a spiegare le loro conoscenze con ambienti malavitosi, ebbe modo di spiegare che i rapporti tra boss e calciatori sono un’evoluzione del tentativo della grande criminalità organizzata di “confondersi con la società civile” senza più mettersi in mostra, come negli anni ’80, ma “presentandosi in tono dimesso” e “facendosi introdurre da ambienti imprenditoriali”. Un processo di accreditamento che, secondo il magistrato che ha processato il clan dei Casalesi, porta i boss a contatto con gli ambienti che contano sfruttando il traino del calcio. Erano i giorni di Balotelli e Lavezzi chiamati a spiegare le loro conoscenze pericolose. Quelli in cui il Pocho ammise candidamente di essere amico di Michele Iori, imprenditore in carcere per riciclaggio di denaro sporco. L’argentino raccontò di boss capi ultrà e orologi di valore lasciati a casa dell’amico durante le trasferte internazionali come se fosse il caveu di una banca. Oggi Napoli si interroga sulle rapine ai suoi campioni. Solo circostanze?

venerdì 25 novembre 2011

Tevez al Milan: chi gli lascia lo stipendio?


L'accelerazione del Milan per arrivare a Tevez già nel mercato di gennaio ha attraversato come una scossa il calcio italiano. L'operazione, ancora tutta da costruire, arricchirebbe il nostro campionato di un top player andando a colmare almeno una delle voragini lasciate in eredità dall'ultima estate (Eto'o, Pastore e Sanchez tanto per fare i tre nomi più conosciuti) e certamente regalerebbe ad Allegri un jolly pesantissimo da giocare nella corsa scudetto. L'impossibilità di utilizzare l'argentino in Europa a causa dei dieci minuti disputati in settembre contro il Napoli non sarebbe un ostacolom anzi. Consentirebbe al tecnico una corretta gestione del turn over da qui a giugno anche considerando l'assenza di Cassano, il più utilizzato degli attaccanti (12 presenze su 12, una volta sola partendo dalla panchina) prima del guaio che lo ha fermato.

Tutto sembra perfetto, dunque. In proiezione, però, l'arrivo di Tevez con un investimento importante da parte del Milan per il cartellino (intorno ai 25 milioni di euro) e soprattutto per lo stipendio non possono che significare il preavviso di sfratto per un altro dei big rossoneri. La politica del Milan nei prossimi anni è stata delineata chiaramente dall'ad Galliani nel corso dell'ultima assemblea degli azionisti che ha certificato un bilancio in rosso per 69,8 milioni di euro. Si era alla vigilia del calciomercato e Galliani rassicurò i tifosi: "Non partirà nessun big, ma dovremo ridurre per forza ridurre il monte stipendi per rientrare nei parametri del Fair Play". Un concetto già espresso nei mesi precedenti quando era stata chiusa la porta a un possibile ritorno di Kakà ("Guadagna troppo. Abbiamo già Ibrahimovic che ha uno stipendio elevato e abbiamo ceduto Ronaldinho al Flamengo proprio perché guadagnava tanto" disse) e, appunto, era stato spiegato l'addio a Dinho. Una scelta obbligata considerato che nell'ultimo bilancio il costo complessivo del personale è aumentato fino a toccare quota 192 milioni di euro e anche la campagna di rinnovi al ribasso e il sacrificio di Pirlo non hanno consentito al Milan di scendere sotto i 160 milioni di euro lordi. Per una busta paga 'pesante' che entra una deve uscire, insomma. La logica è questa e non ci sono i presupposti perché la politica di via Turati cambi.

E allora come si fa a potersi permettere Tevez che oggi prende dal City 10 milioni di euro netti a stagione con scadenza 2013? Un sacrificio sarà chiesto anche al giocatore, ma il livello è comunque incompatibile con la convivenza con Ibrahimovic. Ad oggi il monte stipendi delle punte rossonere ammonta a 22,4 milioni di euro netti (quasi 45 lordi): Ibrahimovic 9 milioni (scadenza 2015), Robinho 5 (2014), Pato 4 (2014), Cassano 2,7 (2014), Inzaghi 1 (2012) ed El Shaarawy 0,7 (2016). Tolto Inzaghi, che partirà ma non incide, Cassano, senza mercato in attesa di conoscere tempi e modi del recupero, ed El Shaarawy, proiettato sul futuro, restano Ibra, Pato e Robinho. Tornano alla mente gli spifferi di quest'autunno. Il mal di pancia dello svedese e il retroscena dell'aumento chiesto a scudetto conquistato e rifiutato da Galliani. Se Tevez si aggregherà al Milan per volare in Dubai a inizio gennaio logica vuole che a giugno un big finisca sul mercato. Gli indizi portano a Ibra, ma se Pato non dovesse dare garanzie sulla sua tenuta fisica...

Giovanni Capuano

Arresti, crisi e ingaggi da record: il calcio cinese punta Anelka per non morire


A Pechino e dintorni sembrano essersi stufati di guardare il grande calcio dal buco della serratura e di regalare alle big europee un mercato potenziale da un miliardo di tifosi. L'offerta da oltre dieci milioni di euro (netti) all'anno che sta spingendo Anelka verso Shiangai è solo la seconda pietra di un progetto di rinascita che punta a restituire lustro alla Chinese Super League, in crisi profonda dopo anni di scandali e delusioni che ne hanno distrutto credibilità e seguito.

Il primo a fare i bagagli per la Cina è stato, nel luglio scorso, Dario Conca, miglior giocatore del campionato brasiliano: il Guangzhou del finanziere Liu Yongzhuo lo paga 900mila euro al mese fino al dicembre 2013 per il disturbo facendo di lui il quinto calciatore per stipendio al mondo dietro a Cristiano Ronaldo, Rooney, Messi e Yaya Tourè. Ora Anelka, domani magari qualcun altro perché il primo problema da risolvere per i dirigenti cinesi è restituire ai tifosi un motivo per seguire un campionato che solo tre anni fa poteva contare su un bacino di 150 milioni di seguaci e una media di presenze allo stadio superiore a 25mila. Era il 2008-2009, la seconda età dell'oro dopo quella di inizio anni Novanta. Un momento di benessere che aveva portato a Tianjin anche il nostro Damiano Tommasi con l'idea di essere solo un pioniere.

Tutto spazzato via dalla più grande scandalo mai scoppiato con manager arrestati, idoli nazionali cancellati, arbitri corrotti e licenziati, interi tornei falsati in nome delle scommesse. “Un cancro che ci ha divorato” hanno spiegato affranti i vertici della federazione vedendo andar via sponsor internazionali (compresa Pirelli), broadcast televisivi e appassionati, delusi dalla credibilità perduta in un decennio di imbrogli, truffe ed episodi oscuri. Come la partita terminata 11-2 per consentire di aggiustare al millimetro la differenza reti nella corsa alla salvezza. O un 6-0 maturato con quattro marcature negli ultimi due minuti. O le liste di arbitri comprabili con tanto di tariffario (“7mila dollari” raccontò un presidente incastrato dall'inchiesta), ricevute di pagamenti e prostitute ingaggiate per allietare le notti in albergo. Una calciopoli devastante con retrocessioni eccellenti (lo stesso Guangzhou risalito a suon di yen e di nuovo campione quest'anno) ed effetti anche sui risultati.

L'altra faccia della Cina che si prepara a fare shopping di talenti in Europa è, infatti, la crisi della nazionale. La partecipazione ai mondiali del 2002 (Bora Milutinovic in panchina, tre sconfitte, zero gol fatti e nove subiti) doveva essere il ballo di una deb al tavolo delle grandi; è stata una perla in un mare di mediocrità fatto di eliminazioni in serie (l'ultima ha estromesso la squadra dai Giochi di Londra 2012) e passi indietro nel ranking Fifa dove oggi la Cina vivacchia al 72° posto dietro a nazioni come Capo Verde, Burkina Faso, El Salvador e Zimbabwe. Davvero troppo per chi ha alle spalle un'economia in crescita, malgrado gli ultimi rallentamenti, e che attraverso i suoi fondi sta progettando di entrare sul mercato dei club europei con la Roma nel mirino. Il piano per rilanciare la CSL si muoverà su due direttrici: grandi nomi, per attirare tifosi e investitori, e un programma di sviluppo dei settori giovanili da oltre 50 milioni di euro in tre anni. A pagare è una grande società immobiliare. Obiettivo: centuplicare gli attuali 7mila under 18 tesserati. Perché il calcio in cui sbarcherà il francese Anelka è un mondo strano: popolato di appassionati che fanno notte per non perdersi la Premier, ma che non hanno mai dato un calcio al pallone e che allo stadio hanno smesso di andarci. Dopo i dollari degli emiri, la campagna acquisti degli sceicchi in Europa e il trasferimento choc di Eto'o nelle lande del Daghestan il pallone ha scelto di rotolare ancora più ad est.

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giovedì 24 novembre 2011

La favola dell'Apoel e la Champions delle piccole che piace a Platini


La qualificazione dell’Apoel Nicosia agli ottavi di finale della Champions League, la prima volta di una squadra cipriota tra le prime sedici d’Europa, è una storia che merita di essere raccontata. A raggiungere un traguardo che sino a un paio di anni fa era impossibile anche solo sognare è, infatti, il piccolo Barcellona di Cipro. Non solo una squadra di calcio, ma una vera e propria polisportiva, orgoglio della popolazione greco-cipriota della capitale spaccata in due dalla difficile convivenza con l’etnia turca. Così la sognarono e la vollero i soci fondatori che la fecero nascere in una sera d’inverno del 1926 nel retro di una pasticceria del centro e così è stata lungo tutta la sua storia.

L’Apoel è più che un club, dunque. E’ una questione di fede e di identità etnica, un gioiello cullato nel clima rovente di uno stadio che presenta quasi sempre il tutto esaurito ed offre ai suoi un sostegno incondizionato. Se ne sono accorte Zenit e Porto, sconfitte entrambe nel girone. A Nicosia non si passa e conta poco che l’anima dell’Apoel sia più brasiliana e portoghese che cipriota. Sono brasiliani gli attaccanti Ailton e Manduca (insieme 5 dei 6 gol realizzati dall’Apoel), portoghesi Pinto e Morais, anime del centrocampo, e Paulo Jorge, pilastro difensivo. Poi c’è il portiere belga, eroe a San Pietroburgo, un paio di greci, un macedone, turchi, bosniaci e olandesi. Un mix cucinato in panchina da Jovanovic, tecnico serbo senza pedigree ma che sta facendo la storia del club.


L’Apoel nelle sedici bellissime d’Europa è, però, anche la vittoria di Michel Platini. Questa edizione della Champions segnerà un record: il più alto numero di squadre non appartenenti all’elite del calcio europeo (Spagna, Inghilterra, Germania, Italia e Francia) capaci di superare l’ostacolo dei gironi eliminatori. Apoel e Benfica ci sono già. All’Ajax manca solo l’ufficialità aritmetica mentre nel girone G un posto è riservato al ballottaggio tra Porto e Zenit. In corsa con buone possibilità di qualificazione ci sono anche Trabzonspor e Cska Mosca (girone B), Basilea (girone C) e Olympiakos (girone F). Un caso? No. E’ l’effetto della riforma di Platini che dall’estate del 2009 ha rivoluzionato i criteri d’accesso alla Champions privilegiando i campionati emergenti e rendendo più difficile la vita alle terze e quarte di Serie A, Premier, Liga e Bundesliga. Avete presente l’Udinese costretta a sfidare l’Arsenal mentre Bate, Genk e Apoel ottenevano il pass facendo fuori austriaci, polacchi e israeliani? Ecco, dopo due stagioni gli effetti cominciano a vedersi. 

Prima di oggi l’accesso alla fase ad eliminazione diretta era quasi precluso per le piccole: solo due volte (nel 2005/2006 e nel 2007/2008) ci erano riuscite in quattro ma a pesare era il momento magico di Porto, l’ultima non big ad alzare la coppa nel 2004, e Psv. Per gli altri solo le briciole. Che la Coppa dei Campioni non sia un torneo per debuttanti lo dimostra del resto anche l’albo d’oro. Porto escluso, per trovare una vincente non di lusso bisogna tornare all’Ajax del 1995 o alla fine degli anni Ottanta con il filotto di Steaua Bucarest (1986), Porto (1987), Psv (1988) e Stella Rossa (1991). Era un calcio senza inglesi, buttate fuori dopo la tragedia dell’Heysel e riammesse solo nel 1990 dopo un lustro di confino.


L’altra faccia della medaglia del sogno dell’Apoel e dei record dell’altra Europa è, invece, la crisi dei club di Premier. A novanta minuti dalla fine dei gironi solo l’Arsenal ha guadagnato la qualificazione. Il Chelsea si è suicidato con le sue mani a Leverkusen e dovrà battere il Valencia per non uscire. Il Manchester United è atteso a una sfida senza appelli, ma con due risultati su tre a disposizione, a Basilea. Il City deve sperare in uno scivolone del Napoli in Spagna. Alla fine potrebbero anche salvarsi, ma le loro difficoltà rappresentano un’anomalia per un movimento che dal 2006 ad oggi per ben tre volte è stato capace di portare in semifinale tre squadre su quattro.

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mercoledì 23 novembre 2011

L'Ambrogino di cartone


Per capire la motivazione che porterà l'avvocato, giurista e professor emerito di Diritto commerciale alla Bocconi Guido Rossi sul palco del Teatro Dal Verme a ritirare dalle mani del sindaco Pisapia il prestigioso Ambrogino d'Oro bisognerà attendere ancora qualche giorno. Oggi si sa solo che il nome di Rossi è finito nell'elenco dei 28 milanesi 'doc' premiati con la Medaglia d'Oro. Un riconoscimento che gli arriva nell'anno in cui l'offensiva di Moggi e della Juventus ha fatto tremare dalle fondamenta la sua gestione della Figc post-Calciopoli a partire dalla scelta di assegnare all'Inter lo scudetto 2006.

Che si tratti di un ultimo schiaffo politico-calcistico a juventini e milanisti? Ufficialmente la candidatura è stata presentata dall'architetto, assessore ed esponente del Pd, Stefano Boeri. I retroscena della riunione che ha compilato la lista dei premiati dicono che a chiedere conto del perché si volesse onorare proprio Guido Rossi sia stato un solo consigliere, milanista altrettanto 'doc'. "Sono sincero, mi ha mosso soprattutto l'odio calcistico nei confronti di chi ha regalato all'Inter lo scudetto di cartone" ammette Matteo Salvini. Messo in minoranza ha dovuto abbozzare e così Guido Rossi, commissario straordinario della Figc per 90 giorni nell'estate del 2006 e passato alla storia per l'assegnazione del tricolore all'Inter (di cui era stato consigliere d'amministrazione) e per la comparsata ai Mondiali 2006, entrerà nel novero dei milanesi da ringraziare per la loro attività.

A meno che il premio non sia destinato alla sua militanza negli ambienti finanziari, delle banche e della Borsa. Il che sarebbe plausibile ma, forse, un po' indelicato nel mezzo di una crisi nata proprio nel mondo della finanza. O, ancora, che sia stata riconosciuta la sua opera nel Group of High Level Company Law Experts della Commissione Europea proprio mentre l'Europa stessa vede sfaldarsi le sua fondamenta. Per non voler essere maliziosi e sostenere che una legislatura in Senato da indipendente della Sinistra possa valere il primo Ambrogino dell'era Pisapia. No, non ci crediamo. Se Guido Rossi passerà alla storia sarà per quel maledetto scudetto che sta dividendo l'Italia tra interisti e revisionisti. E allora l'Ambrogino non può che essergli stato dato per questo e tremiamo all'idea che la sua assegnazione possa diventare oggetto di una guerra di religione. Via il dente, via il dolore: lo chiameremo l'Ambrogino di cartone. Tutti contenti, nessuno (si spera) al Tar.


Giovanni Capuano

La sfida di Ibra contro Guardiola e i vecchi fantasmi



Fanno presto a dire che non è la sfida di un uomo contro tutti. Ci ha provato Ibra per primo addolcendo nel miele (“Il Barcellona è il miglior club al mondo”) il veleno iniettato con la sua autobiografia. Ci ha provato Guardiola con la solita signorilità e anche Allegri evocando il Valium per placare lo svedese. E ci hanno provato i vecchi compagni prima di salire sull'aereo che li ha portati a Milano. Tutto inutile. Milan-Barca è prima di tutto la sfida di un uomo, Ibrahimovic, al suo passato e ai fantasmi che lo popolano. L'incontro tra un grande campione forse incompiuto e quello che doveva essere il suo treno per la gloria. Un treno abbandonato in fretta.

Lo svedese è rimasto in Catalogna poco più di un anno: 46 presenze, 22 gol, un contributo soprattutto nella Liga dove, però, Guardiola lo schiera da titolare all'inizio (17 volte su 19 nel girone d'andata) e poi piano piano lo marginalizza (12 presenze di cui 7 dalla panchina nel ritorno). Tra i due il rapporto non decolla. Ibra litiga con Messi per un rigore non tirato contro il Maiorca, minaccia di strozzare il preparatore atletico che gli vuole negare il debutto contro il Real per infortunio, si fa male sulla neve durante le vacanze e lo tiene nascosto al club presentandosi agli allenamenti con una cuffia in testa, entra in rotta di collisione tutte le volte che gli viene prospettata la panchina, simula infortuni pur di non finire riserva. Fino agli insulti post-semifinale contro l'Inter (“Ti caghi addosso davanti a Mourinho”), ai gelidi silenzii e alla tumultuosa trattativa per scappare a Milano durante la quale lui minaccia di arrivare alle mani con Guardiola e il club preferisce mettere a bilancio una minusvalenza da record pur di liberarsi del problema.

A Barcellona, come prima in passato, fallisce soprattutto negli appuntamenti di Champions. Segna un gol contro il Rubin Kazan ma il Barca perde. Segna contro lo Stoccarda agli ottavi e finisce 1-1. E' decisivo solo nei quarti contro l'Arsenal (doppietta a Londra) ma nella semifinale contro l'Inter sparisce: due volte in campo e due volte sostituito. Una costante della sua carriera. Ad Appiano ancora ricordano la furia di Moratti negli spogliatoi di Manchester dopo l'eliminazione nel marzo 2009 con Ibra che sbaglia un gol a un metro dalla porta. O il diagonale finito fuori nel ritorno contro il Liverpool di un anno prima e il digiuno totale nel 2006/2007 con harakiri a Villarreal. E anche in bianconero non era andata meglio: 19 presenze e la miseria di 3 gol in due campagne europee, nessun acuto contro Arsenal e Liverpool nelle notti che contavano. Tutto identico al nulla nei 180 minuti del naufragio rossonero contro il Tottenham un anno fa.

A fare bene i conti quella di Ibra contro il Barcellona assomiglia tanto alla puntata di un giocatore su un tavolo verde che l'ha visto sempre perdente. A trent'anni compiuti il sospetto si è trasformato in certezza. Se la fuoriserie del gol nei campionati vinti in sequenza diventa un'utilitaria in Europa un motivo ci deve essere. In Champions Ibrahimovic ha collezionato 81 presenze e 26 reti (una ogni 250'). Nelle partite ufficiali della sua nazionale ha fatto anche peggio (11 gol in 36 tentativi, uno ogni 261 minuti). Medie lontane da quelle toccate in serie A (un gol ogni 153'), Liga spagnola (127') e campionato olandese (136'). Il primo Ibrahimovic si consumava nell'inseguimento alla gloria europea. L'ultimo è arrivato  dire che vincerla o meno “non aggiungerà nulla alla sua carriera”. Una bugia? Probabile. Pagherebbe di tasca sua per scrivere un finale diverso alla sua parabola professionale. Il tempo, però, comincia a mancare. Contro il Barca serve una svolta. Nella notte più difficile, con davanti il suo passato, i fantasmi che lo popolano e difronte a Guardiola, che poteva diventare l'allenatore della consacrazione e, invece, si è trasformato in un capitolo di un libro pieno di livore e rimpianti.

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martedì 22 novembre 2011

Allarme-Inter, torna il teorema dell'accerchiamento mediatico


Lo sfogo con cui Ranieri nel pre-partita di Trebisonda ha attaccato i media italiani per il risalto dato alle proteste del Cagliari dopo il gol in fuorigioco di Thiago Motta è il secondo segnale del manifestarsi di un virus molto pericoloso in casa Inter. Trattasi del temuto senso di accerchiamento da potere mediatico e/o politico che negli ultimi quindici anni si è manifestato a periodi alterni ma (quasi) sempre in momenti di estrema debolezza sia a livello societario che a livello tecnico.

Non può essere una caso che le parole di Ranieri ("Non c'è equilibrio nel commentare. Quando capita a noi i problemi sono nostri mentre quando capita agli altri si parla di campionato falsato") sono il quarto episodio in pochi mesi. Già Gasperini in estate aveva sottolineato maliziosamente di aver scoperto che ad Appiano è più difficile gestire problemi e polemiche. Poi erano arrivati i rigori dubbi, la rabbia di Ranieri nel post-Napoli ("Non voglio pensare che ci stiano facendo pagare Calciopoli") e gli attacchi durissimi di Moratti. Un'escalation che ha qualche precedente illustre purtroppo per l'Inter quasi sempre sintomo di difficoltà.

La teoria del potere mediatico, del resto, l'aveva esplicitata Giacinto Facchetti in un'intervista a Le Monde nel febbraio del 2004. Zac aveva appena perso di rimonta il derby (da 2-0 a 2-3) e si avviava a chiudere la stagione a -23 dal Milan campione d'Italia. "Per vincere dovremmo acquistare qualche giornale o qualche tv. Manchiamo di potere mediatico" sparò Giacinto, spiegando ai francesi che "all'Inter quando c'è una nuvola i media la trasformano in temporale" e in queste condizioni "la pressione mediatica è insopportabile". Apriti cielo. Polemiche a non finire e risposta piccatissima del Milan via sito ufficiale: "Il signor Facchetti legge? Non lo sappiamo, ma certamente parla. Se avesse letto si sarebbe accorto che anche sul Milan ci sono gli uragani mediatici, senza tutele e senza protezioni".

Poi venne Calciopoli, le telefonate, l'Inter di nuovo vincente dopo quasi un ventennio e la questione-potere mediatico si inabissò come un fiume carsico salvo riemergere di tanto in tanto. Come nel gennaio 2008 quando Mancini costrinse tutti al silenzio stampa per protestare contro il 'trattatmento' ricevuto dopo Inter-Parma, quello dei due gol quasi a tempo scaduto e della mano (?) di Couto sulla linea di porta. L'Inter era in crisi e quello scudetto, che per tutti era scontato, alla fine arrivò solo in volata grazie alla doppietta di Ibrahimovic nel fango del Tardini.

La madre di tutte le polemiche, però, è certamente il monologo di Mourinho del 3 marzo 2009. Sette minuti filati per abbattere a picconate il sistema. "C'è un grandissimo lavoro organizzato per manipolare l'opinione pubblica, prostituzione intelletuale" sillabò il portoghese. E poi via contro Juventus, Roma, Milan. La parabola degli "zero tituli" la solidarietà agli allenatori penalizzati negli scontri con la Juventus, l'accenno a proteste clamorose ("Se penso al prossimo fine settimana meglio non giocare") e l'attacco frontale a giornali e tv ("Io parlo perché sono obbligato... Non manipolo l'opinione pubblica e non sono un campione del primetime"). Anche quell'Inter era in difficoltà: da lì a dieci giorni sarebbe arrivata l'eliminazione in Champions per opera del Manchester che - per ammissione dello stesso Moratti - portò il presidente a scontrarsi con lo Special One. Insomma nulla di nuovo sotto il cielo nerazzurro. Crisi che attraversi, virus da accerchiamento che trovi.

Giovanni Capuano

Verso Milan-Barca: solo Thiago Silva, Ibra e Boateng nella squadra dei sogni


Un difensore, un centrocampista e Ibrahimovic. Se non fosse che lo svedese ha già fallito l'approdo sul pianeta-Barcellona si potrebbe azzardare che Guardiola, avendone la facoltà, non porterebbe via ad Allegri più di tre uomini. E' solo un gioco. Mettere a confronto reparto per reparto, uomo per uomo, le corazzate che si affronteranno. Un paio di avvertenze: abbiamo tenuto fuori gli assenti sicuri (Dani Alves, Iniesta, Afellay e Adriano per il Barca, Cassano, Gattuso, Mexes, Flamini per il Milan) e siamo consapevoli che Guardiola e Allegri giocano con moduli diversi.

PORTIERE – Meglio Victor Valdes, che in questa stagione viaggia alla media di poco più di mezzo gol a partita, o Abbiati, esplosivo ma discontinuo? Certo, lo spagnolo ha il vantaggio di essere l'estremo baluardo di una squadra quasi invincibile, però ai punti lo preferiamo. Troppo fresco il ricordo delle papere di Abbiati contro Udinese, Lecce e Juventus.

DIFESA – La coppia di difensori centrali la suggerisce Billy Costacurta che di difensori se ne intende: “Piquè e Thiago Silva sarebbero la miglior coppia del mondo”. Anche per questo il Barcellona ci sta pensando, ma intanto, con buona pace di Nesta e Mascherano, è impossibile non preferirli ai rispettivi avversari. Sulle fasce, assente Dani Alves che avrebbe chiuso ogni discorso, restano i ballottaggi Abate-Puyol e Zambrotta-Abidal. Abate è un emergente poco avvezzo, però, ai mari europei. Puyol (33 anni) è un po' logoro, ma sempre pronto quando Guardiola o Del Bosque lo hanno chiamato. A sinistra è impari il confronto tra Abidal, titolare inamovibile in 17 delle 19 partite stagionali giocate dai blaugrana compresa la finale di Supercoppa Europea e i due 'clasicos' contro il Real, e Zambrotta (o Antonini). Tanto impari che il Barcellona ha appena offerto il rinnovo di contratto al francese che sei mesi fa alzava la Coppa dei Campioni al cielo di Wembley dopo aver sconfitto un tumore.

CENTROCAMPO – Manca Iniesta e questo consente a Boateng di giocare il jolly e farsi preferire nel ruolo di terzo d'attacco a Pedro, Sanchez, al quasi deb Cuenca o a chiunque possa mettergli di fronte Guardiola. Al suo fianco, però, non c'è scampo. Impossibile rinunciare a Xavi, candidato a finire sul podio del prossimo Pallone d'Oro, per lasciar posto a Van Bommel. E impossibile preferire Nocerino a Fabregas, malgrado il milanista sia il più usato in Champions da Allegri (360 minuti su 360) e, a sorpresa, il secondo per falli subiti in tutta la competizione dietro a Ribery. Il quarto di centrocampo se lo giocano Busquets (o Keita) e Aquilani (o Seedorf). Sfida meno sbilanciata delle altre. Se solo Seedorf avesse qualche anno in meno...

ATTACCO – I numeri di Messi in questa Champions parlano da soli: capocannoniere (5 gol), giocatore con il maggior numero di tiri in porta (15) e in totale (32). Uomo-assist del Barcellona. In campo sempre con l'eccezione di uno spezzone della trasferta di San Sebastian. Era il 10 settembre, un data da segnare sul calendario. Spiace per Pato e Robinho ma non c'è partita. Così come i numeri promuovo Ibrahimovic nel confronto con Villa: 3 gol in 3 partite, unico rossonero nella top ten della classifica marcatori. Ha saltato solo la sfida del Camp Nou e non può non aver voglia di rifarsi.

ALLENATORE – Disse Mourinho, un anno fa, parlando di Allegri: “Come posso preoccuparmi di uno che è alla seconda panchina in Champions”. Ingeneroso. Però anche adesso che Allegri è arrivato a quota 12 non si può dimenticare che quello è il numero dei 'tituli' collezionati da Guardiola nella sua breve carriera da allenatore. E se domani sbancasse San Siro conquisterebbe il 27° successo in Champions scavalcando Van Gaal nella classifica dei tecnici più vincenti della storia del Barca.

RIEPILOGANDO - Victor Valdes, Puyol, Piqué, Thiago Silva, Abidal, Xavi, Busquets, Fabregas, Boateng, Messi, Ibrahimovic. Allenatore: Guardiola. E' solo un gioco, ma ci sarà pure un motivo per cui loro sono marziani e i nostri sognano l'impresa. Sfavoriti? E' già successo una volta: 18 maggio 1994. Sulla carta non c'era partita, in campo finì Capello-Cruijff 4-0.