martedì 31 maggio 2011

La scommessa di Conte, il silenzio di Marotta e il mercato delle figurine bianconere


Nel giorno in cui Antonio Conte si prende la Juventus stona il silenzio assordante della dirigenza che, dopo aver scaricato Del Neri, non ha ancora trovato il tempo per fare una seria autocritica. Nulla sulla campagna acquisti che un anno fa portò a Torino (in due rate) quindici giocatori che oggi vengono definiti “quantità senza qualità”. Nulla sul bilancio del dopo-Calciopoli in cui la Juventus (con le sue varie facce) ha buttato via oltre 125 milioni di euro, bruciato cinque allenatori e una quarantina di giocatori. Nulla su un progetto che doveva essere vincente entro un lustro e che, invece, è passato dal secondo posto di Ranieri a due fallimenti totali certificati dall’addio all’Europa. Oggi che si prepara un nuovo ciclo Marotta e soci rischiano di ripetere gli errori di dodici mesi fa. Allora, nella frenesia delle prime settimane del mercato, furono acquistati e strapagati Martinez, Lanzafame, Pepe, Motta e Bonucci. Acquisti che pesano sul bilancio chiuso con un passivo da 60 milioni di euro che è una zavorra anche sul futuro. Cacciato Del Neri e rinnegato il passato (senza però assumersene in pieno le responsabilità) le prime mosse della nuova Juventus sono state gli ingaggi a parametro zero di Pirlo e Ziegler, la scelta di abbandonare Aquilani, l’addio a figure minori come Rinaudo e il rinnovo del contratto di Marchisio. Che oggi torna sul mercato perché poco adatto al gioco di Conte. Strategia? Difficile da comprendere. In compenso gli uomini mercato della Juventus stanno girando l’Europa per comperare uno o due attaccanti di fama internazionale (Nani, Aguero, Tevez, Benzema, Sanchez il profilo dell’obiettivo confermato anche da Marotta), un paio di centrocampisti (Montolivo, Fernando, Inler tanto per fare qualche nome) e almeno un altro esterno (Bastos, Lichsteiner, Zabaleta o Maggio). Il budget sul tavolo è discreto e può diventare importante a patto di riuscire a ricavare qualcosa dalle cessioni, ma proprio su questo fronte – ad oggi – non si capisce dove si possa agire. Quanto può incassare davvero la Juventus vendendo Amauri, Felipe Melo, Iaquinta, Grygera, Grosso, Martinez, Traorè, Storari, Giovinco, Lanzafame, Toni e altri sempre ammesso che abbiano mercato? Davvero possono arrivare i 30 milioni di euro messi in conto dalla dirigenza? E ha senso correre a comprare due attaccanti di livello mondiale quando al momento in rosa ce ne sono già sei (Matri, Del Piero, Iaquinta, Quagliarella, Toni, Amauri) che per diverse ragioni difficilmente possono essere piazzati altrove e, soprattutto, tutti insieme sono già un reparto sovradimensionato per una stagione in cui si gioca solo per campionato e Coppa Italia? Infine, chi sta disegnando il mercato? Perché si cercano giocatori negli stessi ruoli diversissimi l’uno dall’altro? Sanchez trequartista, Nani esterno o Aguero prima punta? Se serve un attaccante centrale significa che Matri (costato 18 milioni di euro, 20 gol in campionato di cui 9 in bianconero) è già stato bocciato? Ziegler e Lichsteiner sono meglio degli esterni bassi di quest’anno?
Marotta ha fatto sapere che “tanti grandi campioni hanno espresso il desiderio di giocare nella Juventus del futuro”. Se è vero pensi prima a vendere riparando agli errori del passato per poi presentarsi sul mercato senza l’acqua alla gola. Un anno fa gli dissero no, tra gli altri, Burdisso, Kaladze, Di Natale e Borriello. Credere che la situazione sia davvero cambiata è un atto di fede. Farlo senza una serena autocritica sugli errori del passato rappresenta quasi un’apertura di credito al buio.
Giovanni Capuano
  
Della nuova Juventus si parlerà questa sera a Campionato dei Campioni in onda dalle 20,45 su Odeon Tv (canale 177 DTT)

lunedì 30 maggio 2011

E dopo il Tripletino adesso Moratti lasci partire Eto'o...



Sul prato dell’Olimpico, a differenza di quanto accaduto un anno prima a Madrid, si sono affrettati tutti a dire che nessuno immagina un futuro lontano dall’Inter: Eto’o, Snejider, Milito. Sembra passato un secolo dal “... vedremo, ho molte offerte...” con cui El Principe macchiò la sua notte magica al Bernabeu salvo poi monetizzare nelle settimane successive. In quella distanza c’è, invece, la fotografia esatta del lavoro durissimo che attende ora gli uomini di mercato di Moratti. Un anno fa gli interisti li volevano tutti. Il club decise di vendere solo Balotelli, di ritirare dal mercato Maicon una volta chiaro che non avrebbe strappato dal Real Madrid quanto voluto, e di confermare tutti gli altri. Questa stagione si è incaricata di dimostrare che quella decisione, per quanto umanamente comprensibile, fu un errore. Il campionato lasciato al Milan e la precoce eliminazione dalla Champions non sono solo figlie della scelta (errata) di affidare a Benitez il dopo Mourinho. Bisogna avere la lucidità di dire che oggi l’Inter non è più la squadra più forte d’Italia. La rosa è corta e qualitativamente da migliorare. Molti giocatori sono logori. Le 155 giornate saltate complessivamente per infortuni lo dimostrano. Benitez si era fermato a quota 32 guai muscolari in cinque mesi. Dopo di lui non è andata meglio: Cambiasso, Styankovic, Milito, Lucio, Ranocchia, Thiago Motta, Sneijder e Cordoba hanno continuato a farsi male anche con Leonardo e l’immensa fatica della finale dell’Olimpico contro il Palermo racconta molto dello stato fisico di una squadra che ha nel dna la fame per altri successi ma ha anche disperato bisogno di forze fresche. A un anno di distanza da Madrid, però, sono pochi gli uomini che hanno mercato. Inutile illudersi di poter lasciar partire a condizioni vantaggiose Milito. Maicon si è svalutato. Forse può andar via Thiago Motta. Ecco, allora, che diversamente da quanto fatto un anno fa Moratti deve questa volta fare una scelta coraggiosa. Se davvero qualcuno è disposto a svenarsi per Eto’o lo ceda. Il camerunense è stato l’anima della stagione interista, ma ne è anche la certificazione che il resto non ha funzionato: 37 gol in 53 partite a 30 anni compiuti sono la conferma di un talento eccezionale più che la promessa di un futuro (anche prossimo) di altissimo livello. Julio Cesar ha giocato 39 delle 58 partite stagionali; se davvero l’Inter crede in Viviano lo lasci partire. Lo stesso numero di Sneijder con l’attenuante di una stanchezza impossibile da smaltire dopo un’annata chiusa solo con la finale mondiale in Sudafrica. Qual è il prezzo giusto per cedere almeno due di questi big? I soldi sufficienti a portare a Milano tre giovani di qualità: un laterale difensivo (serve un fuoriclasse a qualsiasi prezzo perché di mezze figure ce ne sono sin troppe), un centrocampista e un attaccante. Se è vero che in Europa per almeno un altro paio di stagioni sarà difficile competere con la dittatura del Barcellona e del Real, è arrivato il momento di aprire un nuovo ciclo chiarendosi le idee se Leonardo sia l’uomo giusto per farlo o si debba guardare altrove. Il numero di telefono di Villas Boas Moratti lo conosce.

Giovanni Capuano

sabato 28 maggio 2011

Guardiola il perbenista e la rincorsa agli inutili record



Tifare Barcellona e dire che Pep Guardiola è il migliore è rock. Lasciarsi trascinare dal calcio antico del ManU di Ferguson è lento. Il credo barcelonista è rock, la normalità degli inglesi è lenta. Le geometrie di Xavi e le magie di Messi sono cool. Le corse un po’ sgraziate di Rooney e la classe da pub di Giggs meno alla moda. Ma a noi piace dire che tra la finta modestia di Guardiola e le spigolosità di Ferguson sono meglio le seconde e che nella finale di Wembley è abbastanza chiaro chi sia l’allievo e chi il maestro. Basta dimenticare gli eccessi del catalano (che sta vincendo tutto spinto da un gruppo eccezionale e dalla potenza politica di un club unico al mondo) e concentrarsi sull’unicità dello scozzese. A inizio carriera fu capace di costruire dal nulla il cliclo dell'Aberdeen: 3 scudetti, 4 Coppe di Scozia 1 Coppa delle Coppe e una Supercoppa Europea in  un movimento in cui negli ultimi 46 anni solo quattro volte il titolo non è andato a una delle due squadre di Glasgow. E quando sedette sulla panchina dell’Old Trafford nel novembre del 1986 lo United non vinceva un titolo nazionale dal ’65 e uno europeo dal ’68. Era passato attraverso l’onta della retrocessione e si cullava nel ricordo struggente della tragedia che aveva cancellato l’epopea dei Busby babes. In venticinque anni Ferguson ha conquistato tutto: 12 campionati, 18 trofei in Inghilterra, 2 Champions League (e due finali perse), 1 Coppa delle Coppe, 2 Supercoppe Europee e 2 Coppe Intercontinentali. Messi tutti insieme fanno 38 titoli in 25 anni. Anche a volerli misurare così sono una montagna che il catalano difficilmente riuscirà a scalare. E senza dimenticare che in un quarto di secolo Ferguson ha anche allevato e salutato, senza per questo smettere di vincere, fenomeni come Keane, Beckham, Cristiano Ronaldo e Tevez. Gli ultimi due, per intenderci, c’erano la sera della finale persa a Roma contro Guardiola che da quel giorno, invece, ha potuto permettersi di buttare via Eto’o, sostituirlo con Ibrahimovic e alla fine impuntarsi per prendere Villa facendo bruciare ai soci del Barca qualcosa come una novantina di milioni di euro mentre Sir Alex si è dovuto reinventare vincente con Berbatov e El Chicharito Hernandez. Anche per tutto questo il sorriso rubizzo di Ferguson e la sua caparbia nel non arrendersi al tempo che passa a noi piacciono più del perbenismo di Guardiola. Uno che quando gli chiedono se il suo Barcellona sia la squadra più forte di tutti i tempi non risponde “Ehi amigo, che dici? Hai visto cosa hanno combinato i Diavoli di Manchester?” ma cita il Milan di Sacchi e il Santos di Pelé, il passato che non può fargli ombra. Che non ha speso una parola per stigmatizzare gli eccessi dei suoi al Bernabeu ma ha lasciato che lo vestissero da vittima. E che finge di schermirsi quando gli citano il record da strappare a Mou, la firma più giovane sul doblete in Champions. Un record inutile, buono per il marketing. Ne riparliamo tra 22 anni quando anche Pep, come Alex, sarà passato tra alti e bassi, vittorie e cicli da ricostruire senza ripetere come un mantra che gli allenatori possono resistere in un club “tre o al massimo quattro stagioni”. Lo vada a chiedere a Ferguson se è proprio così.

Giovanni Capuano

mercoledì 25 maggio 2011

Il codice etico di SuperMario



Diario tipo dell’ultima settimana di SuperMario Balotelli, impegnato a festeggiare il ritorno in Nazionale nell’amichevole contro l’Estonia dopo l’esclusione a marzo dovuta all’applicazione del Codice Etico e le successive scuse con richiesta di aiuto.
Domenica sera diserta la parata del Manchester City per la conquista della FA Cup e della qualificazione in Champions e dà buca (o tira il pacco) al party con i tifosi organizzato dalla stessa società che – raccontano le cronache – se la prende di brutto e minaccia multe.
Lunedì si presenta a sorpresa in Lega Calcio al seguito del fidato Raiola. Prende a sportellate un paio di giornalisti e, non contento, lancia un gavettone quasi fosse all’ultimo giorno di scuola e non in mezzo a professionisti che lavorano.
Alla sera va in un locale e si fa prendere a ceffoni da due clienti a causa, scrivono i tabloid ma non solo, di sguardi un po’ troppo insistenti verso una ragazza. Come corollario si scopre che lui, SuperMario, è anche un cattivo cliente del locale: consuma poco e ogni tanto dimentica di pagare il conto. In compenso è un vero asso del volante (come del resto i ‘ghisa’ di Manchester hanno già avuto modo di certificare) e per seminare i giornalisti e paparazzi usa “... la solita tattica: bruciare i semafori rossi...” (dalla Gazzetta dello Sport del 25 maggio). Ora, Prandelli di mestiere non fa il vigile ma il c.t. e forse il suo codice etico non può allargarsi a dismisura tanto da coprire anche comportamenti semplicemente maleducati fuori dal campo. Ma se il messaggio era che la Nazionale bisogna meritarsela e i giocatori devono essere esempi per i giovani (o almeno non cattivi maestri), siamo sicuri che il codice etico di Balotelli corrisponda in pieno a quello varato da Prandelli? O contro l’Estonia non potevano bastarci Matri, Pazzini e Rossi lasciando SuperMario al suo personalissimo slalom tra risse, multe e giornalisti?

Giovanni Capuano



martedì 24 maggio 2011

Come si dice spezzatino in spagnolo?


Mentre in Italia si discute su come imitare il modello spagnolo (o almeno quello tedesco) e ci si lamenta perché il nostro calcio negli ultimi dieci anni è riuscito ad aumentare il proprio fatturato solo di 630 milioni di euro (da 0,9 a 1,53 miliardi di euro secondo il Report 2011 di Arel e PricewaterhouseCoopers), a Madrid e dintorni hanno deciso di copiare il nostro spezzatino per incrementare introiti che – malgrado stelle e fiscalità di favore – restano ancora inferiori a quelli della nostra serie A. Perché la Liga non sono solo Barcellona e Real Madrid ma anche le altre 18 squadre molto più povere di risorse e qualità come del resto ben testimonia una classifica in cui terza e quarta sono rispettivamente a 21 e 30 punti dalle prime due . I circa 600 milioni di euro oggi introitati dalle tv se ne vanno per la metà nelle tasche dei due ‘big’ lasciando agli altri le briciole in virtù di una normativa quasi unica in Europa che concede ancora il privilegio della vendita individuale dei diritti. Ecco allora che per la prossima stagione si apparecchia uno spezzatino che i nostri dirigenti nemmeno si sognano. Calcio a tutte ore dalle 16 del sabato (con partite anche alle 18, alle 20 e alle 22) alle 21 del lunedì passando per una domenica in cui si gioca alle 12, alle 15, alle 17, alle 19 e alle 21. Dieci partite in dieci orari diversi. Il motto di tv è club è che un singolo abbonato deve essere messo in condizione di non perdersi nemmeno un minuto del campionato per il quale ha pagato fior di quattrini. Va bene i ricavi da stadio, sponsor e merchandising, ma quel misero 38% di fatturato derivante dai diritti tv che oggi c’è in Spagna e che noi invidiamo dall’alto della nostra tele-dipendenza (65% delle entrate dei club italiani arrivano da lì) per i manager della Liga rappresenta una vergogna da cancellare.

Giovanni Capuano

lunedì 23 maggio 2011

Giovani, mercato e carattere: ecco cosa c'è dietro il 'suicidio' di Mazzarri


Il suicidio tentato da Mazzarri ricorda da vicino quello che Mancini mise in scena l’11 marzo del 2008 nel dopo-partita dell’eliminazione interista contro il Liverpool. Allora come oggi ad accendere la miccia del distacco è stata una gestione del rapporto tra tecnico e presidente a dir poco superficiale. Ma allora come oggi le ragioni della rottura sono precedenti e più profonde. Non si manda via un tecnico vincente perché si auto esonera in diretta. Se, però, il tuo allenatore ha ‘rotto’ con parte dello staff ed è entrato in contrasto con il presidente perché chiede autonomia manageriale assoluta (come fu per Roberto Mancini all’Inter) lo sfogo di una serata andata male diventa il pretesto per regolare tutti i conti. In queste settimane Mazzarri ha lasciato intendere con chiarezza che all’origine delle sue perplessità sul proseguimento del rapporto con il Napoli c’erano questioni personali (adeguamento dello stipendio e certezza di potersi giocare bene la chance europea) e tecniche. Sulle prime De Laurentiis avrebbe anche ceduto. Sulle seconde ha pesato, forse, il bilancio di due campagne acquisti firmate dal duo Mazzarri-Bigon che non devono aver entusiasmato il presidente azzurro. Nel 2009-2010 a Napoli sono arrivati Campagnaro, Cigarini, De Sanctis, Hoffer, Quagliarella (poi sostituito con Cavano dodici mesi più tardi), Dossena e Zuniga. Nel 2010-2011 è toccato a Cribari, Dumitru, Lucarelli, Sosa, Yebda, Ruiz e Mascara. Tanti discreti giocatori, ma l’ossatura del Napoli dei miracoli, partendo da capitan Cannavaro, passando per Aronica, Maggio, Gargano, Pazienza e finendo al duo Lavezzi-Hamsik è sempre quella costruita da Pierpaolo Marino, l’unico capace fin qui di interpretare la mission societaria di trovare giovani talenti da valorizzare. Alla fine Mazzarri e De Laurentiis hanno firmato la tregua, forse anche per mancanza di alternative. La qualificazione alla Champions ha regalato un budget da una trentina di milioni di euro da spendere in estate. Sicuri che i duellanti abbiano la stessa idea su come investirlo? E se davvero il Milan bussasse per Hamsik sicuri che potrebbero rispondere con la stessa voce?

Giovanni Capuano

Il calendario degli Agnelli


Una premessa: arrivati a questo punto è augurabile che la Figc si decida una volta per tutte a chiudere il faldone riguardante Calciopoli dicendo se le aspirazioni revisioniste della Juventus sono legittime oppure se è il caso di metterci una pietra sopra. O, quanto meno, indichi una data entro la quale attendersi il pronunciamento (dopo la sentenza di Napoli? Dopo l’appello? La Cassazione?). Sarebbe il modo migliore per tranquillizzare l’Inquieto Agnelli e restituirlo al compito che lo attende: rifondare la Juventus. Il tweet postato dall’erede dell’Avvocato poche ore prima di Juve-Napoli che ha ufficializzato il fallimento totale della stagione bianconera (“Se dopo un anno dalla presentazione del nostro esposto nessuno si muove evidentemente è perché qualcuno ha la coscienza sporca” il pensiero presidenziale) è, infatti, solo l’ultimo tassello di una strategia mediatica che, più ancora di Moratti, dovrebbe preoccupare i tifosi juventini. Basta mettere in fila le date per decodificare il calendario degli Agnelli. 10 maggio 2010: la Juventus presenta l’esposto in Figc chiedendo che lo scudetto 2006 sia tolto all’Inter. Il giorno prima la squadra di Zaccheroni era stata battuta in casa dal Parma (2-3) e condannata al girone infernale del preliminare di Europa League. 28 ottobre 2010: Agnelli attacca annunciando che la nuova dirigenza è pronta “a chiedere la riassegnazione degli scudetti tolti” qualora nel processo di Napoli fosse dimostrata la correttezza del comportamento della Juventus. Quattro giorni prima la squadra di Del Neri era stata fermata su uno scialbo 0-0 dal Bologna ed era precipitata a -7 dalla Lazio capolista, prima crepa nel progetto-scudetto. 16 dicembre 2010: la sparata davanti all’assemblea degli azionisti (“Calciopoli fu un procedimento ridicolo”) arriva a poche ore di distanza dall’eliminazione nel girone di Europa League. Sei partite, sei pareggi. Fuori la Juve, avanti il Lech Poznan e fuoco alle polveri. 29 gennaio 2011: duello al calor bianco con Moratti. “Le sue parole mi annoiano” dice Agnelli jr infuocando il clima a due settimane esatte dalla sfida dell’Olimpico. Com’era andata nel gennaio bianconero? 4 punti in 4 partite, scudetto addio e il 27 gennaio k.o. casalingo (ed eliminazione) con la Roma in Coppa Italia. Poi silenzio fino al 10 maggio 2011 e comunicato sul sito per ricordare il primo compleanno dell’esposto. Il giorno prima Del Piero e compagni si erano fatti rimontare in casa dal Chievo (da 2-0 a 2-2) dicendo addio al sogno di qualificarsi in Champions League passando almeno dai preliminari. Ora il tweet nel giorno del fallimento su tutta la linea. Palazzi si sbrighi o c’è il rischio che alla Juve perdano di vista il vero obiettivo che rimane restituire al calcio italiano una squadra e una società all’altezza.

Giovanni Capuano

PS: Tra una carta e l’altra Palazzi dovrebbe anche chiarire se accusare la Figc di non agire perché “qualcuno ha la coscienza sporca” rappresenti una lesione del famoso art. 1 del Regolamento. A meno che i deferimenti non valgano solo per i soliti Lotito e Zamparini.

venerdì 20 maggio 2011

Le mezze verità di Galliani e un altro addio imminente. Ecco chi è il vero obiettivo dei rossoneri


Credo sempre di meno alle parole dei dirigenti e dei calciatori. Durante la stagione sportiva, la retorica durante le conferenze stampa sta diventando nauseante. Anche la partita contro la derelitta ultima in classifica è "una partita importante", "una finale da vincere a tutti i costi".

Ci credo ancora meno in periodo di calciomercato, quando i dirigenti smentiscono anche le trattative quasi concluse. D'altronde fa parte del gioco. Raccontare di inseguire un giocatore piuttosto che un altro, fa abbassare il prezzo del vero obiettivo.

E'  quello che abbiamo pensato ieri sentendo le parole di Adriano Galliani. "L'unico obiettivo del Milan è una mezz'ala sinistra. Se prendiamo questo giocatore, siamo a posto". C'è una mezza verità in questa frase: Max Allegri vuole portare a Milano Andrea Lazzari del Cagliari, un suo vecchio pallino. Ma di certo non è questo l'obiettivo "numero uno" dei rossoneri. Anche perchè in quel ruolo c'è un certo Emanuelson che ha dimostrato cose importanti in quella parte del campo. E occhio anche a Boateng che nella prossima stagione, dando per scontata la conferma al Milan, giocherà molto partite come mezz'ala. Allegri lo vede più in quella zona del campo dove c'è da correre su e giù per il campo.

Dunque il vero obiettivo del Milan non è una mezz'ala sinistra, ma il rifinitore. Sarà il numero 10 il vero obiettivo del Milan la prosima estate. Ad oggi scommetterei molto su Javier Pastore piuttosto che su Marek Hamsik. L'argentino, dotato di una tecnica sopraffina, ricorda in certi movimenti, in certe progressioni, il miglior Kakà. Hamsik, invece, è più centrocampista, piace moltissimo ad Allegri, un po' meno probabilmente a quelli che sognano un "vero" numero 10.
A proposito di "dieci", occhio al rinnovo di Clarence Seedorf. Rumors molto attendibili lo vedono sempre più lontano dalla casacca rossonera. Dopo Pirlo, un altro pezzo grosso della storia recente del Milan potrebbe dire addio....


Stefano Peduzzi


giovedì 19 maggio 2011

Ranking Uefa? Altro che Germania... Siamo già quasi sesti



L’allarme non è ancora scattato, forse perché pochi sanno o vogliono leggere nei ranking della Uefa ed è molto più comodo sognare un nuovo sorpasso sulla Germania che fare i conti con la calcolatrice e con la dura realtà. Dal prossimo anno il nostro campionato assegnerà solo 2 posti nell’elite della Champions League. Il terzo dovrà passare da preliminari sempre più difficili. Ma dietro l’angolo c’è un’ulteriore e più umiliante retrocessione e a mettersi dietro quello che fu ‘il campionato più bello del mondo’ saranno due tornei molto meno ricchi del nostro, espressione di movimenti che fatichiamo a giudicare degni e che oggi crescono a velocità nettamente maggiore.
La stagione 2010-2011 si chiude con l’Italia al quarto posto nel ranking Uefa. Abbiamo 60,552 punti, la Germania ci sopravanza di quasi 9 punti e alle nostre spalle Francia e Portogallo (rispettivamente 53,678 e 51,196 punti) premono. Basta una piccola proiezione nelle prossime due stagioni per capire come, però, il distacco rispetto all’Italia sia già stato in realtà colmato. Da qui al 2013 l’Italia dovrà scartare 22,178 punti (effetto dei risultati del 2006-2007 e del 2007-2008). Nello stesso lasso di tempo la Francia lascerà sul terreno 16,928 punti (5,250 in meno rispetto a noi) e il Portogallo 16,011 (6,167 in meno rispetto a noi). Due conti e il gioco è fatto. Nelle prossime due stagioni più che guardare all’irraggiungibile Germania dobbiamo stringere i denti e difendere un vantaggio di 1,6 punti sulla Francia e 2,7 punti sul Portogallo che nelle ultime due stagioni ce ne hanno recuperati rispettivamente 5,868 e 17,492. E senza vincere la Champions League come è capitato a noi con l’Inter nella finale di Madrid giusto un anno fa.
Dunque dobbiamo rassegnarci a scivolare al sesto posto del ranking Uefa? In linea di massima sì, considerato che negli ultimi tre anni (e godendo dei frutti dell’estemporaneo exploit dell’Inter 2010) siamo stati capaci di vincere solo un terzo delle 173 partite disputate in Europa e che in questa stagione il trend è anche peggiorato: 13 vittorie (25%), 19 pareggi (36,5%) e 20 sconfitte (38,5%). Perdendo più delle partite che si riesce a vincere è difficile pensare non solo di recuperare la Germania ma, addirittura, di difenderci da chi sta dietro.
Giovanni Capuano

mercoledì 18 maggio 2011

Addio Pirlo, il nuovo traditore


Chissà cosa avrà fatto mai di male Andrea Pirlo a Berlusconi per meritarsi un trattamento alla Leonardo. Il metodo-Boffo applicato al calcio, dove basta una frase sussurrata all’orecchio di un pensionato in una mattina d’estate, fuori da un seggio elettorale, per finire dalla parte dei ‘cattivi’. Era il 21 giugno 2009, l’epoca del Kakà appena volato a Madrid e di Pato che diventava l’unico “incedibilissimo” della rosa. Il dialogo, appena sussurrato ma curandosi bene di essere in favore di telecamera, è ormai nell’antologia berlusconiana: “Pirlo? Io sono stato il primo a dire che deve rimanere, ma poi mi hanno fatto vedere i conti…”. E l’ignaro vecchietto: “I conti? E s’el custa?”. E lui, il presidente-candidato-imprenditore: “54 miliardi all’anno…”. Una cifra sparata così. Miliardi e non milioni di euro. Per farsi capire meglio anche dal vecchietto evidentemente poco pratico con la moneta fresca di conio solo da sette anni. Una cifra ricavata mischiando numeri veri (quelli del contratto del centrocampista per le due stagioni successive) e presunti (l’offerta da una trentina di milioni di euro del Chelsea). Abbastanza per mettere all’indice quello che il mondo-Milan ha dipinto per anni come il miglior regista del mondo: piedi sopraffini, intelligenza superiore, geometrie irrinunciabili. Otto stagioni da protagonista (2001-2009): 333 presenze, 39 gol fatti, un palmares ricchissimo. Poi, dopo quella sentenza sparata in una mattinata calda d’estate, due campionati di sofferenza. Il primo giocato da mediano (con Leonardo), il secondo trascorso in infermeria. E oggi l’addio. E il venticello che già si leva da Milanello: “Ha fatto una scelta di soldi… Voleva guadagnare di più… Non accettava la nuova logica del Milan…”. Tradotto: lui, 32 anni non ancora compiuti, giocatore integro e per di più espressione di un ruolo dove tecnica e geometrie contano molto più del fisico, avrebbe dovuto accettare un rinnovo annuale a cifre dimezzate come un Inzaghi o un Del Piero qualsiasi. Giocatori 38enni a fine carriera, monumenti da portare in giro senza contarci su troppo dal punto di vista agonistico. Andrea Pirlo ha detto di no. Il Milan non ha fatto nulla per trattenerlo. Andrà via. Quasi certamente alla Juventus e sarà una grande colpo per la Vecchia Signora. Al suo posto Allegri potrà far giocare il giovane Van Bommel, 34 anni compiuti, piedi e polmoni logori dopo una carriera da corridore. Scelta legittima, ci manca. Ma, per favore, risparmiateci il ritornello del “… se ne è andato per i soldi..” e l’etichetta del giocatore bollito. E quando Pirlo con orgoglio rivendicherà che a rimpiangerlo dovrà essere chi oggi lo manda via in nome di un bilancio chiuso al di là dei proclami con 45 milioni di euro di rosso e stipendi da sette zeri al mese (Ronaldinho prima, Ibra adesso, Pato in futuro) evitateci le scene patetiche dei fischi, degli striscioni e del dagli al traditore. Del metodo-Leonardo, insomma. Un altro mandato via come un appestato e che poi, chissà perché, avrebbe dovuto annullarsi nell’eterna gratitudine a quello che fu.
Giovanni Capuano