venerdì 6 gennaio 2012

L'impresa del biathlon azzurro: quando l'Italia vince in casa dei maestri





Ci sono giorni in cui vincere conta di più. Nei quali veder salire il tricolore sul pennone più alto e sentire le note di Mameli vale una lacrima perché accade lì, nel tempio dei maestri, con intorno gli sguardi di chi si pensava invincibile e, invece, ha dovuto chinare la testa. Sono giorni che scrivono la storia dello sport italiano. Accade all’improvviso e quando accade può succedere che quattro sconosciuti diventino un pezzo di leggenda. Succede che Christian De Lorenzi, Dominik e Markus Windisch e Lukas Hofer si scoprano maestri nel tempio mondiale del biathlon a Oberhof. Primi davanti a tutti come non accadeva alla staffetta azzurra addirittura dal lontano 1994.
Alzi la mano chi conosce almeno uno dei loro nomi. Pochi, forse nessuno. Il successo ottenuto davanti a Russia, Svezia e alla Germania padrona di casa ha il sapore dell’impresa compiuta in condizioni proibitive, con neve e vento a rendere un inferno l’alternanza di spari e sci, sci e spari, e una rimonta incredibile dal quarto al primo posto confezionata man mano che gli avversari si eliminavano con una lunga serie di errori dalle piazzole di tiro.

Una giornata storica, indimenticabile, da scrivere di diritto nella galleria dei capolavori azzurri al pari di altre imprese che ci hanno entusiasmato e commosso. Vittorie costruite sulla sofferenza e, spesso, nell’incredulità di tutti.

Qualche esempio? Chi non ricorda il tuffo d’oro di Silvio Fauner sul traguardo della staffetta 4×10 km di fondo alle Olimpiadi di Lillehammer del 1994. Una medaglia impossibile da vincere in casa dell’imbattibile Norvegia accompagnata da centomila bandiere e dall’urlo di una nazione. Maurilio De Zolt, Marco Albarello, Giorgio Vanzetta e Silvio Fauner gli uomini che compirono l’impresa. Nessuno di loro mollò, chilometro dopo chilometro, racchettata dopo racchettata. Nessuno fino alla retta finale nello stadio che aspettava solo di festeggiare il trionfo norvegese e che assistette impietrita al tuffo di Fauner che ci laureava maestri in casa dei maestri. Non poteva accadere e invece accadde.

Come la vittoria della nazionale maschile di volley nella semifinale mondiale del 1990 contro il Brasile in un Maracanaizinho reso bolgia da 20mila indemoniati. Da un anno era la squadra di Velasco. Sarebbe diventata la ’squadra del secolo’. Quel giorno lottò contro pronostico, seppe soffrire e si impose al termine di un tie break durissimo: alzata di Tofoli e schiacciata di Lucchetta. Via verso la finale contro Cuba, il primo successo mondiale e l’inizio dell’epopea. E loro, i brasiliani, a piangere per un titolo che sentivano loro per diritto.

O, ancora, l’urlo disumano che accompagnò la sbracciata di Nando Gandolfi a battere la Spagna dopo sei supplementari nella finale olimpica di pallanuoto più lunga della storia. Era il 9 agosto 1992: Piscina Picornell di Barcellona, arbitraggio indegno, Re Juan Carlos in tribuna e in vasca tredici azzurri guidati da Ratko Rudic. Era impossibile vincere e invece accadde. E i pochi italiani ammessi nel tempio saltarono in piedi sicuri di aver assistito a qualcosa di irripetibile.

L’uno-due di Grosso e Del Piero al Westfalen Stadion di Dortmund (Mondiali 2006) fu il simbolo della nostra corsa fino a Berlino. I tedeschi erano favoriti. Era il loro Mondiale. Pali, traverse. Tutto congiurava fino a quel minuto 119 che ammutolì uno stadio e una nazione proiettandoci laddove non pensavamo di poter arrivare. O i rigori parati in serie da Toldo contro l’Olanda nella semifinale europea del 2000 a casa loro. Trincea a fermare la marea arancione.
Una galleria che contiene anche capolavori solitari. Nessuno riteneva Primo Carnera capace di battere il campione del mondo Sharkey al Madison Squadre Garden di New York, casa sua, il 29 giugno 1933. Ci aveva già perso e invece vinse diventando per tutti il ‘Gigante di Sequals’.

E Gino Bartali passò alla storia come il salvatore della Repubblica quando nel luglio del 1948, con l’Italia a un passo dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti, distrusse le certezze di Luison Bobet sui tornanti del Col d’Izoard. Era il 15 luglio 1948. La sera prima il presidente del Consiglio De Gasperi in persona lo aveva chiamato per chiedergli di non abbandonare il Tour malgrado stesse arrancando a oltre 20 minuti dalla maglia gialla.
Anche fotografi e giornalisti italiani erano tornati a casa. Bartali obbedì, si alzò sui pedali e vinse un Tour già perso accompagnato dall’emozione di un Paese che si esalta per le sue gesta e dimentica tensioni e paure. Era possibile? No. O forse sì. Era semplicemente una cosa che accade così, senza che quasi te ne accorgi e proprio per questo è ancora più bella.

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