venerdì 30 marzo 2012

DOSSIER - Il calcio in crisi versa un miliardo di euro in tasse allo Stato



Il calcio è una gallina dalle uova d’oro che ogni anno garantisce solo in tasse più di un miliardo di euro allo Stato italiano. Cifra che è la somma di tutte le forme di contribuzione diretta, indiretta e previdenziale cui sono assoggettate le oltre 71mila società attive, di cui 107 professionistiche e una decina - le big di serie A - che da sole assicurano un gettito fiscale da centinaia di milioni di euro. Il dato pubblicato all’interno del Report elaborato dal centro studi della Figc illumina di luce diversa un mondo considerato tradizionalmente beneficiario di grandi attenzioni da parte dello Stato e poco capace di restituire allo stesso un adeguata contropartita.

Un circolo di ricchi viziati in cui ci sono molti milionari e altrettanti imprenditori senza progettualità e costretti a continui debiti per ripianare gestioni dissennate. Tutto vero ma con la postilla che l’industria-calcio a livello contributivo non fa mancare il suo apporto allo Stato ripagando così ampiamente quei servizi di cui usufruisce.

Lo studio della Figc mette in fila tutte le forme di contribuzione diretta (Iva, Ires, Irap e ritenute sul lavoro dipendente e autonomo), indiretta (scommesse) e previdenziale (Enpals). La somma finale relativa all’anno di imposta 2009 è impressionante: 1 miliardo e 30 milioni di euro di cui circa l’80% (688 milioni di euro) dalle venti società di serie A, quelle sotto accusa più di tutte per i passivi sempre crescenti, l’incapacità di darsi un assetto decisionale stabile e la mancata competitività agonistica a livello internazionale.
Quelle stesse società che da anni chiedono con forza alla politica di licenziare una legge sugli stadi che consenta finalmente di investire in infrastrutture e non solo in cartellini e ingaggi di giocatori e che invece - al di là delle promesse ribadite ancora ieri dal nuovo ministro dello sport Piero Gnudi - langue ancora in Parlamento senza avere certezza di vedere la luce entro la fine della legislatura.

Non è un dettaglio. Il sistema calcio italiano, infatti, sta attraversando una crisi la cui uscita è legata soprattutto alla possibilità di equilibrare ed incrementare contemporaneamente i ricavi allineandosi al resto d’Europa. Il Report segnala come nella sola stagione 2010-2011 il debito della serie A sia salito a 2,6 miliardi euro (+14% in un anno) mentre i ricavi sono scesi dell’1,2% e i costi di gestione saliti dell’1,5% con un disavanzo complessivo di 428 milioni di euro.

La prima causa di questo bilancio rosso fuoco? Debiti finanziari (mutui, finanziamenti etc…) innanzitutto, ma anche una preoccupante fuga da stadi obsoleti e poco attrattivi: -4,4% le presenze e -8,2% gli incassi (oltre 22 milioni di euro di buco). Tutto mentre le società sono state costrette a misurarsi con provvedimenti fortemente limitativi della loro possibilità di vendere il proprio prodotto come la Tessera del tifoso o si sono dovute sobbarcare costi sempre maggiori per garantire controllo e sicurezza all’interno degli impianti per non gravare sulle forze dell’ordine anche a livello economico: ricordate le polemiche per i costi degli straordinari dei celerini da mandare negli stadi?

L’allarme non suona certo da oggi, ma la risposta delle istituzioni è stata sin qui carente. Appelli, promesse e impegni presi senza alcun risultato. Un autogol anche per lo Stato che vede contrarsi le sue possibilità di incasso dall’industria-calcio. Le prime avvisaglie già si intravvedevano nel 2009 rispetto al 2008 e nelle stagioni successive la situazione non è certo migliorata. A pesare maggiormente nella somma della contribuzione fiscale del calcio sono le ritenute da lavoro dipendente. Da sole valgono 524 milioni di euro all’anno e coprono il 51% del totale.

Gli stipendi per calciatori e personale dalla serie A alla LegaPro ammontano a 1 miliardo 290 milioni di euro di cui un miliardo solo nella massima divisione e circa 500 milioni di euro garantiti dagli investimenti di tre sole famiglie: Moratti, Berlusconi ed Agnelli. Se scoprire che sono ben 701 i calciatori con un reddito superiore ai 200mila euro può fare arrabbiare, non va dimenticato che la trattenuta in busta paga è il sistema più sicuro per il fisco di recuperare quanto dovuto. Vale per un operario e a maggior ragione anche per un campione del pallone. Tema di cui si discusse con toni accesi la scorsa estate quando nella manovra finanziaria stava per essere inserito il contributo di solidarietà che da solo sarebbe costate alle società di serie A, già in crisi profonda, una cinquantina di milioni di euro.

La seconda voce di contribuzione per peso è l’Iva: vale 208 milioni di euro ed è generata da un volume d’affari diretto di quasi 2 miliardi di euro (1,5 solo dalla serie A). Poi ci sono Enpals (90,4 milioni di euro), Irap (43,7) e Ires (8,4). Ultimo aspetto su cui vale la pena fermarsi a riflettere sono i 142 milioni di euro che il fisco ricava dal movimento delle scommesse legate al calcio. Il dato si riferisce al 2011 anno in cui la raccolta complessiva dalle scommesse si è attestata a 3,4 miliardi di lire con un netto calo rispetto al 2010.
Un segnale inquietante perché in controtendenza dopo un periodo di crescita costante. Sta pesando probabilmente la perdita di credibilità del sistema travolto dagli scandali e dalle inchieste. Ha senso rischiare dei soldi su partite che si scoprono poi manipolate? 

Attenzione perché gli effetti sono immediati e pesanti per tutti. In un anno il sistema ha bruciato 600 milioni di euro di raccolta e 22 milioni di euro di contribuzione fiscale. Il calcio rimane sempre lo sport sul quale si scommette di più ma si stringe la forbice rispetto agli altri. Insomma la perdita è tutta lì e anche in questo caso è il momento di muoversi. Le ultime inchieste, tutt’altro che concluse, stanno dimostrando la necessità di dotare il calcio di strumenti di autotutela per limitare l’impatto di appetiti esterni difficili da controllare.

Nessun commento:

Posta un commento