Una lunga striscia di lutti inspiegabili per tutti tranne che per gli
addetti ai lavori. Perché dietro le morti improvvise di giovani atleti
apparentemente sani e caduti sul campo o nel chiuso di una stanza
d’albergo quasi mai c’è la casualità. “Troppi decessi? Al contrario.
Oggi in Italia le morti improvvise per sport sono percentualmente
inferiori a quelle del resto della popolazione a pari età” spiega Bruno Carù, cardiologo che in passato si è trovato tra le mani i casi spinosi di Kanu, Fadiga e Fucka.
In Italia siamo all’avanguardia come prevenzione, ma l’ipocrisia sul
tema resta tanta: “Ricordo pressioni e insulti quando negai l’idoneità a
Fadiga - racconta Carù ricordando il nigeriano acquistato dall’Inter -.
Il suo procuratore me ne disse di tutti i colori però avevo ragione
io”.
Ipocrisia, calcolo dei costi e benefici della prevenzione che salvare
una sola vita di un giovane atleta costringe la medicina sportiva a
visitarne approfonditamente centomila. Uno sforzo che nel resto del
mondo pochi ritengono accettabile e che in Italia è obbligato dalla
legge. A parole sono tutti d’accordo, ma quando capita di dover fermare
un atleta su cui una società a investito milioni di euro…
Professor Carù, le è mai capitato di ricevere pressioni perché rivedesse un suo parere scientifico?
“Certo che ho ricevuto pressioni e anche insulti per aver fermato un
atleta. Persone che mi chiedevano se i miei strumenti fossero taroccati o
tarati male come se io avessi un interesse personale…”.
Lei costrinse l’Inter a rinunciare prima a Kanu e poi a Fadiga…
“Io negai l’idoneità sportiva a Fadiga e lui fece un altro consulto
in Belgio da un medico che al contrario gli diede il nullaosta. Mi
dissero che non capivo nulla e invece negli anni successivi il ragazzo
subì due interventi di ablazione e un arresto cardiaco in campo…”.
Dietro il compiacimento per norme più severe rispetto al resto d’Europa c’è molta ipocrisia?
“Sicuramente. Ricordo ancora il procuratore di Fadiga, un personaggio
sconvolgente che si presentava con catene d’oro e che vedeva sfumare la
sua percentuale per il passaggio del giocatore all’Inter. Comprendo la
sua rabbia anche se non la giustifico”.
Risponde al vero quando diciamo che l’Italia è all’avanguardia nel resto del mondo?
“Assolutamente sì. Siamo i numeri uno per prevenzione e lo certifica
anche una ricerca pubblicata dal Journal of American Medical Association
nel 2006 secondo la quale dal 1982 al 2004 da noi le morti improvvise
per sport sono diminuite dell’80%”.
Merito nostro o altrove sono rimasti indietro?
“A me piace parlar chiaro e dire che all’estero sono rimasti
indietro. Per fare un esempio, se Muamba invece che al Bolton fosse
stato in una qualsiasi squadra italiana non avrebbe mai avuto l’idoneità
a scendere in campo perché portatore di una cardiopatia congenita
grave. Qualcosa che ha colpito anche altri atleti di primo livello”.
Invece in Inghilterra Muamba ha potuto giocare e ora sogna di
tornare e altri atleti fermati in Italia si sono riciclati altrove.
Perché?
“L’ostacolo maggiore e nel calcolo dei costi e benefici della
prevenzione. La morte improvvisa da sport resta comunque un evento raro e
le statistiche dicono che per salvare una vita bisognerebbe visitarne
centomila”.
Costa troppo?
“Esatto. E’ il ragionamento che mi ha fatto un collega inglese recentemente incontrato a un congresso”.
Ragionamento cinico…
“Sì, però all’estero spesso funziona così”.
Non è pensabile che un giorno sia il Cio ad imporre standard simili in tutti i paesi?
“Non è pensabile. I tempi non sono maturi ed è un peccato perché si vedono morire atleti anche di alto livello”.
La gente legge e dice: ‘Oggi ne muoiono di più rispetto al passato’. E’ una percezione corretta?
“No. Sembra che ci siano episodi più numerosi e ravvicinati ma non è
così. Siamo ancora all’interno di un’incidenza standard e l’atleta fa
scalpore solo perché è conosciuto più di quanto accada alla gente
normale che muore per la stessa patologia. L’idea dell’atleta giovane e
supercontrollato che non può morire è e rimane un’utopia”.
Allora perché fermarli? In fondo il mondo è pieno di persone che fanno lavori usuranti sapendo di nuocere alla propria salute…
“La legge italiana impedisce di praticare la propria attività
professionale a un atleta che non ottiene l’idoneità. Io sarei per un
sistema in cui la visita è solo consultiva e alla fine è l’uomo che
decide. Però in Italia è impossibile. In fondo la legge punisce anche il
suicidio…”.
Quindi fuori da ipocrisie e pressioni un giovane con una cardiopatia continuerà a essere fermato?
“Accadrà così. Farlo andare avanti sarebbe come avallarne il suicidio.
Capita anche con pazienti cui dici che devono smettere di fumare. Alcuni
lo fanno e altri no. Però nello sport lo stop viene imposto”.
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